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L'ex rossonero Caldara scrive una lunga lettera di addio al calcio, parlando dello stato di depressione in cui lo portò l'infortunio al ginocchio avuto al Milan:
"Un foglio bianco, una penna. Chiudo gli occhi, butto fuori l’aria. Li riapro, è arrivato il momento.
Caro calcio, io ti saluto. Ho deciso di smettere.
Dopo decine di punture di testosterone, il medico mi dice: non hai più la cartilagine della caviglia. Se continui dovremo metterti una protesi. Il mio corpo mi aveva tradito. Questa volta in modo definitivo.
ll sogno si era trasformato in un’utopia. A volte il tentativo di raggiungere un’utopia può aiutare a camminare. Nel mio caso, invece, mi ha distrutto. Le aspettative mie e degli altri, sperare qualcosa di impossibile, frustrazione: era troppo per la mia testa, non ero pronto. Non sono stato bene. Non ero più me stesso, neanche con le persone che amavo. Tristezza, frustrazione, buio. Non so se si chiami depressione. So, però, cos’ho provato.
La mia testa non era pronta per sopportarne le conseguenze: Mattia Caldara è finito. In quell’allenamento una parte di me è morta per sempre. Il malessere mentale non è semplice da spiegare a parole. Finché non lo vivi, non se ne conoscono sembianze ed effetti. È simile a un velo. Invisibile, ma capace di opprimerti. Da fuori non si vede, ne osservi solo le conseguenze. E, con il suo silenzio assordante, piano piano ti cambia. Ti offusca i pensieri, ti fa perdere lucidità, ti crea una bolla in cui sei rinchiuso e di cui diventi prigioniero. Nuove realtà, nuove regole, nuove logiche. E così è stato per me. Un mio mondo fatto di malessere. E quando vivi situazioni simili, non fai del male solo a te, ma anche alle persone vicine a te. Le spegni. Le contamini con il tuo malessere. Smettono di stare bene. E la responsabilità è la tua. A me è successo questo.
Ciao calcio, sono pronto a salutarti. L’ho fatto. Mi sento più leggero. Mi sento libero di essere me stesso, finalmente. Ripongo questa penna sul tavolo. Mi posso alzare da questa sedia e iniziare a camminare. Si abbassa il sipario. In campo ora c’è Mattia."
"Un foglio bianco, una penna. Chiudo gli occhi, butto fuori l’aria. Li riapro, è arrivato il momento.
Caro calcio, io ti saluto. Ho deciso di smettere.
Dopo decine di punture di testosterone, il medico mi dice: non hai più la cartilagine della caviglia. Se continui dovremo metterti una protesi. Il mio corpo mi aveva tradito. Questa volta in modo definitivo.
ll sogno si era trasformato in un’utopia. A volte il tentativo di raggiungere un’utopia può aiutare a camminare. Nel mio caso, invece, mi ha distrutto. Le aspettative mie e degli altri, sperare qualcosa di impossibile, frustrazione: era troppo per la mia testa, non ero pronto. Non sono stato bene. Non ero più me stesso, neanche con le persone che amavo. Tristezza, frustrazione, buio. Non so se si chiami depressione. So, però, cos’ho provato.
La mia testa non era pronta per sopportarne le conseguenze: Mattia Caldara è finito. In quell’allenamento una parte di me è morta per sempre. Il malessere mentale non è semplice da spiegare a parole. Finché non lo vivi, non se ne conoscono sembianze ed effetti. È simile a un velo. Invisibile, ma capace di opprimerti. Da fuori non si vede, ne osservi solo le conseguenze. E, con il suo silenzio assordante, piano piano ti cambia. Ti offusca i pensieri, ti fa perdere lucidità, ti crea una bolla in cui sei rinchiuso e di cui diventi prigioniero. Nuove realtà, nuove regole, nuove logiche. E così è stato per me. Un mio mondo fatto di malessere. E quando vivi situazioni simili, non fai del male solo a te, ma anche alle persone vicine a te. Le spegni. Le contamini con il tuo malessere. Smettono di stare bene. E la responsabilità è la tua. A me è successo questo.
Ciao calcio, sono pronto a salutarti. L’ho fatto. Mi sento più leggero. Mi sento libero di essere me stesso, finalmente. Ripongo questa penna sul tavolo. Mi posso alzare da questa sedia e iniziare a camminare. Si abbassa il sipario. In campo ora c’è Mattia."
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