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Il solito Ricci, a Cronache di Spogliatoio:"Al Milan mi sto trovando benissimo. Sono stato coinvolto alla grande fin dal primo momento da tutti e questo mi ha colpito molto. Sia dai compagni che da chi lavora dietro le quinte: si stanno creando delle vere e proprie amicizie".
Con Allegri c’è stata subito una grande affinità, a lui piace molto scherzare fuori dal campo e ci strappa sempre un sorriso, ma quando è in campo tiene molto a lavorare e cura il dettaglio. La sua dote fondamentale è che sa come vincere e ce lo sta trasmettendo. L’essere uno di Pisa e uno di Livorno ci dà lo stesso senso dell’umorismo. Il suo secondo è di Lucca, quindi è una triade toscana che fa molto ridere. Si sta creando un bel rapporto con tutti i ragazzi".
"L’aspetto che mi ha più colpito in questo primo mese di Milan è l’intensità che viene messa in allenamento. Si sta creando veramente una competizione interna molto sana che ti fa alzare il livello. Lo abbiamo notato anche durante le amichevoli, dove ho segnato e fa piacere, ma soprattutto abbiamo messo minuti nelle gambe e ti dico, domenica contro il Bari è stato emozionante entrare a San Siro da giocatore del Milan e non da avversario".
"Ho parlato con Modrić di varie cose, anche fuori dal campo. Gli ho chiesto della Spagna e lui mi ha chiesto di varie cose legate all’Italia. Ma soprattutto abbiamo parlato delle case (ride, ndr) perché è una fase in cui la stiamo cercando entrambi! È molto umile ed è già una figura importante dentro lo spogliatoio. Tanti di noi, lo vedo, che fanno già affidamento su di lui. Sinceramente non mi sarei mai immaginato di condividere lo spogliatoio con lui! Fa certe cose con una naturalezza che fa impressione".
"La passione per gli strumenti musicali è nata durante il periodo del Covid. Ero a casa di alcuni amici a Pisa e dovevamo uscire, ma ha iniziato a piovere. Quindi ci siamo chiusi in una stanza dove c’erano chitarre e pianoforti. Ho provato e mi ha preso: mi sono fatto passare il contatto del maestro di chitarra e ho iniziato a strimpellare. Adesso ho un po’ mollato, ma se mi dai degli accordi nel giro di qualche minuto ti suono la canzone. Al Torino a volte ho suonato anche in ritiro, ho duettato con il medico del Toro che suona molto bene. Mentre gli altri cantavano. Adesso vorrei riprendere le lezioni di pianoforte, che è un po’ più complicato come approccio: dopo due mesetti, la chitarra la suoni, il piano è più complesso".
"La Serie A? Il passaggio dalla Primavera è stato brusco. Non è comparabile neanche con un allenamento con i grandi. Ho avuto un po’ di difficoltà all’inizio, ho notato che vivevo il calcio ancora come un gioco e non del tutto come un lavoro. Questo switch ce l’ho avuto quando sono arrivato al Torino: prima vivevo il calcio come un ragazzo, la chiamata del Toro mi ha fatto dire ‘Si inizia a fare sul serio’. Ho iniziato a curarmi di più, ad andare in palestra, lavorare sui miei deficit. Questo cambiamento è arrivato anche grazie a Jurić. Essere uscito dalla comfort zone ha aiutato: secondo me prima lo fai, meglio è. Io l’ho fatto con i tempi giusti, ma mi sono detto: ‘Adesso o cambio, o non gioco mai’. E da quel momento mi sono ritagliato il mio spazio".
"Il mio gioco? Mi piace molto avere la palla tra i piedi, mi piace andare a cercarmela nei momenti della partita in cui arriva meno. In Serie A è complicato perché c’è molta tattica e le squadre giocano chiuse: è difficile trovare spazi. Anche se ho notato che in B è ancora più complicato per questo punto di vista, è un campionato particolare perché come abbiamo visto anche quest’anno, non serve avere nomi ma più la compattezza del gruppo. In B è molto difficile giocare con la palla perché ti pressano tanto e trovi squadre, soprattutto quando vai in trasferta, molto chiuse, e ne escono partite “brutte” e sporche. È una caratteristica generale del campionato italiano e gli stranieri che arrivano da noi trovano difficoltà in tal senso. Ho avuto modo di parlare con i ragazzi arrivati dalla Premier League, ad esempio, e riscontrano questa difficoltà, magari sono avanti sotto altri aspetti. Adams al Torino me lo ha confermato, poi per gli attaccanti è ancora più difficile perché in Italia le difese sono veramente toste e soprattutto è tosto il modo di difendere".
"La nazionale? Sono sincero: ogni volta senti il brividino. La chiamerei ansietta. Alla fine vai fuori dalla tua comfort zone, nel club sei nella routine più totale. Mentre in Nazionale, specialmente le prime volte, non sai quello che trovi e hai anche poco tempo per preparare le partite, quindi devi calarti velocemente nella parte. Non hai troppo tempo per pensare. È stato bello quando ho giocato contro la Francia e c’erano Griezmann e Mbappé, ho pensato: ‘E io che ci faccio qui!?’. Sono esperienze che ti porti dentro per tutta la carriera. Nonostante tu giochi in A, quando vai in Nazionale senti quel brividino che stai facendo qualcosa di diverso, che stai giocando qualcosa di diverso. Stai andando a confrontarti con i migliori".
"Non ho ancora avuto modo di lavorare con Gattuso. Spalletti mi ripeteva spesso che ero bravo nella postura del corpo. È una cosa che tanti allenatori discutono, ma tanti non ci fanno neanche caso. Mister Spalletti me l’ha detta come prima cosa: quando vado a prendere la palla devo essere posizionato di taglio, tra i due attaccanti, e guardare dieci volte, che quattro non bastano mai, essere attento ai dettagli, a come posizioni il corpo quando ricevi palla, che fa tutta la differenza del mondo. È un aspetto che ha curato molto nei centrocampisti. Anche Vanoli è stato molto attento ai dettagli. Mi faceva vedere video di come mi posizionavo rispetto ad altri calciatori, di come un metro possa fare la differenza. Sono aspetti che è facile vedere a video ma di cui, in partita, per ritmo e velocità, non riesco a percepire. Sta cambiando la concezione del giovane. Ho guardato anche un po’ di Serie B quest’anno e vengono messi in campo tanti giovani. Prima questa cosa, secondo me, veniva curata meno. Ho avuto la fortuna di crescere all’Empoli, dove se sbagli la volta dopo sei comunque in campo perché non gli interessa e credono in te. C’è però stata una fase di stallo per i giovani in Italia, ora il vento sta cambiando. Si possono cogliere meglio le occasioni, tanto dipende anche dalla fortuna del posto in cui ti trovi: magari sei in ritiro e fai bene, magari vai in prestito in una squadra che va male quell’anno e ti ritrovi nel posto sbagliato… devi anche trovarti nel posto giusto, quando sei giovane. Tanti hanno grandissime qualità ma magari hanno un allenatore che non li vede in una determinata posizione e mano a mano si perdono".
"L'Africa? Quest’anno ho fatto l’Uganda, due settimane circa. È la quinta volta che vado in Africa. Il primo anno sono stato in Namibia, poi in Kenya, poi in Madagascar, e adesso tocca all’Uganda. Ho cercato ogni volta di scegliere mete molto diverse tra loro, per completare un po’ quello che è il mio “cerchio” di esperienze africane. Ci vado con la mia famiglia. Mi piace sempre ritagliarmi del tempo per stare con loro. Li vedo anche durante l’anno, vengono a tutte le partite, non ne saltano mai una. Però il viaggio è diverso: sei insieme con calma, senza frenesia. È un modo per vivere un momento vero e profondo con loro, lontano dalla routine. Sono stati tutti belli, sinceramente. Ognuno a modo suo. Però molto dipende anche da come li fai. Per esempio, se vai in Kenya e ti chiudi in un resort, secondo me perdi il senso del viaggio. L’Africa è un’esperienza che va vissuta in movimento, spostandosi, esplorando. Sono viaggi intensi, magari un po’ pesanti – tante ore in macchina, strade dissestate – però ti aprono davvero la mente. Ti trovi davanti a una realtà totalmente diversa, e impari a guardare le cose da una prospettiva nuova. Sono entrato in contatto con la realtà locale, anche se non è semplice. Quando poi torni qui, riprendi subito i tuoi ritmi. Però lì capisci che la loro normalità è diversa. Vivono con molto meno, ma forse hanno anche meno distrazioni. Noi siamo circondati da stimoli continui. Lì ti riconnetti con la realtà, con l’essenziale. Ce ne sono tanti. Mi ricordo in Namibia, era uno dei viaggi più “liberi”: noleggiammo una jeep e giravamo da soli. Una volta ci fermammo da un inglese che aveva aperto una specie di caffetteria, forse l’unico “bar” nel raggio di chilometri. Ci ha raccontato la sua storia, come era finito lì. Il caffè lo faceva filtrato, in un modo particolare. È stato uno di quei momenti in cui ti rendi conto che ogni persona ha un percorso incredibile dietro. Mi è capitato di fare una partita con dei ragazzi in un villaggio in Madagascar. È stato bellissimo. Là basta avere qualcosa di rotondo, non per forza un pallone da Serie A, e si mettono subito a giocare. Mi rivedevo in loro: anche io da piccolo, appena avevo un pallone in mano, giocavo ovunque. È una passione che unisce, che supera qualsiasi barriera".
"Le esperienze selvagge? Tante. In Madagascar, per esempio, abbiamo dormito due notti in tenda su una barca. Ogni sera attraccavamo, montavamo la tenda e dormivamo così. Abbiamo incontrato gente del posto, momenti molto autentici. Cerco sempre di evitare le esperienze troppo “costruite”. Mi piace vivere i posti in modo selvaggio, vero. Un po’ di paura ogni tanto viene, soprattutto di notte, quando dormi in tenda e senti i rumori degli animali. Lì è normale, per noi un po’ meno. Però c’era sempre un ranger con noi durante i safari, quindi in sicurezza. Ricordo in particolare un safari notturno: ci trovammo davanti una giraffa enorme. Era buio, si vedeva solo con la luce rossa del fuoristrada. Un impatto incredibile. Dal punto di vista paesaggistico mi ha colpito la Namibia, sicuramente. Ha qualcosa di unico. È praticamente un deserto che arriva fino al mare – l’Oceano Atlantico. Ovviamente non puoi fare il bagno, è gelido e agitato, però vedi dune che scendono fino alla spiaggia. È surreale. Facevamo escursioni in jeep sulle dune: esperienze che ti rimangono dentro. Ho visitato villaggi locali. Spesso sono abituati a vedere turisti, quindi non è sempre facile trovare posti davvero autentici. Però quando capita, ti rendi conto di quanto poco serva per vivere. La povertà lì ha un altro significato rispetto a come la intendiamo noi. C’è tanta povertà, ma anche tanta dignità. In Madagascar era tutto a chilometro zero. Lì non hanno import-export, quindi mangiano solo quello che coltivano. Tanti piatti a base di riso, carne, verdure. E sono buone, molto buone. Gusti diversi dai nostri, più intensi. C’è un amico di famiglia che ha un’agenzia e ha anche aperto delle scuole in Africa. Ci appoggiamo a lui per organizzare tutto, e cerchiamo di dare una mano anche in quel senso. Vorrei fare tutti i viaggi possibili. L’Asia, per esempio, mi ispira molto, ma non ci sono ancora stato. Ci vuole un po’ più di tempo, perché solo il viaggio ti porta via giorni, e poi bisogna rientrare e tornare subito in forma. Però è sicuramente tra le prossime mete. Magari quando smetterò di giocare, riuscirò a viverla con più calma".
"Ho un preparatore che mi segue a distanza. Quando posso, corro all’alba. In Kenya, ad esempio, ho fatto diverse corse lì: paesaggi mozzafiato. Però spesso mancano le attrezzature, una palestra, dei pesi... quindi non riesco a fare tutto. Per questo motivo cerco di non stare via troppo a lungo: bisogna tornare pronti per la preparazione. È fondamentale, anche se effettivamente è sempre più breve. L’off-season è il momento in cui puoi lavorare su cose che durante l’anno non riesci a fare: puoi concentrarti davvero sulla forza massima, fare carichi importanti. In stagione, invece, si tende a fare lavori più brillanti, più conservativi, magari più focalizzati sulla prevenzione. Ma in off-season hai il tempo di strutturare meglio tutto, ed è un lavoro che poi ti ritrovi durante l’anno. Ogni anno impari qualcosa di nuovo. Alla fine cerchi di conciliare tutto, di capire cosa funziona meglio per te. Ovviamente mi affido sempre a preparatori: non puoi inventarti gli esercizi, anche se ormai so quando e cosa fare, so gestirmi. Però sono tutte cose che impari con l’esperienza".
"Gli inizi? Non riesco a tornare molto a Pisa, a meno che non abbia tre giorni liberi. Ma sono sempre in contatto, specialmente con gli amici del bar, ho tanti amici anche più grandi di me, o di famiglia, quindi cerco sempre di ritagliarmi un’oretta per andare a trovarli. Sono tutti grandi appassionati di calcio e lavorano nelle società dilettantistiche della zona. Mi faccio due risate. Da piccolo andavo spesso a vedere il Pisa allo stadio con mio babbo, sono stato felice della promozione in Serie A".
"In cosa migliorare? Devo migliorare in tante cose. Tecnicamente, certo, ma anche dal punto di vista della presenza in campo. Non parlo tanto della grinta, quanto proprio del riuscire a essere più "dentro" la partita. A volte mi piace abbassarmi a prendere palla, ma magari perdo qualcosa nella fase difensiva, quella più dura. Però rispetto a com’ero prima, anche grazie al lavoro fatto recentemente, sono migliorato tanto, soprattutto fisicamente. Ho lavorato molto sulla forza nei primi anni, e ogni stagione continuo a migliorare. I margini ci sono sempre, sotto tanti aspetti: fisico, mentale, ma anche extra-campo, come l’approccio e la preparazione. A livello tattico quello forse è un po’ più difficile se non hai una predisposizione naturale, ma è comunque un’area in cui cerco di crescere. Poi, tutto ciò che riguarda la parte atletica, la puoi allenare anche al di fuori del campo, ed è lì che puoi fare la differenza".
"Modelli? Mi piace molto Rodri, anche se fa un gioco un po’ diverso. In Italia mi piace molto Lobotka, secondo me è fortissimo in entrambe le fasi e riesce ad abbinarle molto bene. Ci sono tanti centrocampisti che ammiro, anche mezzali, che magari non fanno il mio ruolo, ma da cui si può imparare molto. Mi ricordo Sergej Milinković-Savić… era Empoli-Lazio, il giorno del mio esordio, abbiamo perso 3-1. Mi ha colpito tantissimo e ho pensato subito: ‘Se tutti gli altri sono così…’. È stato un impatto forte!".
Con Allegri c’è stata subito una grande affinità, a lui piace molto scherzare fuori dal campo e ci strappa sempre un sorriso, ma quando è in campo tiene molto a lavorare e cura il dettaglio. La sua dote fondamentale è che sa come vincere e ce lo sta trasmettendo. L’essere uno di Pisa e uno di Livorno ci dà lo stesso senso dell’umorismo. Il suo secondo è di Lucca, quindi è una triade toscana che fa molto ridere. Si sta creando un bel rapporto con tutti i ragazzi".
"L’aspetto che mi ha più colpito in questo primo mese di Milan è l’intensità che viene messa in allenamento. Si sta creando veramente una competizione interna molto sana che ti fa alzare il livello. Lo abbiamo notato anche durante le amichevoli, dove ho segnato e fa piacere, ma soprattutto abbiamo messo minuti nelle gambe e ti dico, domenica contro il Bari è stato emozionante entrare a San Siro da giocatore del Milan e non da avversario".
"Ho parlato con Modrić di varie cose, anche fuori dal campo. Gli ho chiesto della Spagna e lui mi ha chiesto di varie cose legate all’Italia. Ma soprattutto abbiamo parlato delle case (ride, ndr) perché è una fase in cui la stiamo cercando entrambi! È molto umile ed è già una figura importante dentro lo spogliatoio. Tanti di noi, lo vedo, che fanno già affidamento su di lui. Sinceramente non mi sarei mai immaginato di condividere lo spogliatoio con lui! Fa certe cose con una naturalezza che fa impressione".
"La passione per gli strumenti musicali è nata durante il periodo del Covid. Ero a casa di alcuni amici a Pisa e dovevamo uscire, ma ha iniziato a piovere. Quindi ci siamo chiusi in una stanza dove c’erano chitarre e pianoforti. Ho provato e mi ha preso: mi sono fatto passare il contatto del maestro di chitarra e ho iniziato a strimpellare. Adesso ho un po’ mollato, ma se mi dai degli accordi nel giro di qualche minuto ti suono la canzone. Al Torino a volte ho suonato anche in ritiro, ho duettato con il medico del Toro che suona molto bene. Mentre gli altri cantavano. Adesso vorrei riprendere le lezioni di pianoforte, che è un po’ più complicato come approccio: dopo due mesetti, la chitarra la suoni, il piano è più complesso".
"La Serie A? Il passaggio dalla Primavera è stato brusco. Non è comparabile neanche con un allenamento con i grandi. Ho avuto un po’ di difficoltà all’inizio, ho notato che vivevo il calcio ancora come un gioco e non del tutto come un lavoro. Questo switch ce l’ho avuto quando sono arrivato al Torino: prima vivevo il calcio come un ragazzo, la chiamata del Toro mi ha fatto dire ‘Si inizia a fare sul serio’. Ho iniziato a curarmi di più, ad andare in palestra, lavorare sui miei deficit. Questo cambiamento è arrivato anche grazie a Jurić. Essere uscito dalla comfort zone ha aiutato: secondo me prima lo fai, meglio è. Io l’ho fatto con i tempi giusti, ma mi sono detto: ‘Adesso o cambio, o non gioco mai’. E da quel momento mi sono ritagliato il mio spazio".
"Il mio gioco? Mi piace molto avere la palla tra i piedi, mi piace andare a cercarmela nei momenti della partita in cui arriva meno. In Serie A è complicato perché c’è molta tattica e le squadre giocano chiuse: è difficile trovare spazi. Anche se ho notato che in B è ancora più complicato per questo punto di vista, è un campionato particolare perché come abbiamo visto anche quest’anno, non serve avere nomi ma più la compattezza del gruppo. In B è molto difficile giocare con la palla perché ti pressano tanto e trovi squadre, soprattutto quando vai in trasferta, molto chiuse, e ne escono partite “brutte” e sporche. È una caratteristica generale del campionato italiano e gli stranieri che arrivano da noi trovano difficoltà in tal senso. Ho avuto modo di parlare con i ragazzi arrivati dalla Premier League, ad esempio, e riscontrano questa difficoltà, magari sono avanti sotto altri aspetti. Adams al Torino me lo ha confermato, poi per gli attaccanti è ancora più difficile perché in Italia le difese sono veramente toste e soprattutto è tosto il modo di difendere".
"La nazionale? Sono sincero: ogni volta senti il brividino. La chiamerei ansietta. Alla fine vai fuori dalla tua comfort zone, nel club sei nella routine più totale. Mentre in Nazionale, specialmente le prime volte, non sai quello che trovi e hai anche poco tempo per preparare le partite, quindi devi calarti velocemente nella parte. Non hai troppo tempo per pensare. È stato bello quando ho giocato contro la Francia e c’erano Griezmann e Mbappé, ho pensato: ‘E io che ci faccio qui!?’. Sono esperienze che ti porti dentro per tutta la carriera. Nonostante tu giochi in A, quando vai in Nazionale senti quel brividino che stai facendo qualcosa di diverso, che stai giocando qualcosa di diverso. Stai andando a confrontarti con i migliori".
"Non ho ancora avuto modo di lavorare con Gattuso. Spalletti mi ripeteva spesso che ero bravo nella postura del corpo. È una cosa che tanti allenatori discutono, ma tanti non ci fanno neanche caso. Mister Spalletti me l’ha detta come prima cosa: quando vado a prendere la palla devo essere posizionato di taglio, tra i due attaccanti, e guardare dieci volte, che quattro non bastano mai, essere attento ai dettagli, a come posizioni il corpo quando ricevi palla, che fa tutta la differenza del mondo. È un aspetto che ha curato molto nei centrocampisti. Anche Vanoli è stato molto attento ai dettagli. Mi faceva vedere video di come mi posizionavo rispetto ad altri calciatori, di come un metro possa fare la differenza. Sono aspetti che è facile vedere a video ma di cui, in partita, per ritmo e velocità, non riesco a percepire. Sta cambiando la concezione del giovane. Ho guardato anche un po’ di Serie B quest’anno e vengono messi in campo tanti giovani. Prima questa cosa, secondo me, veniva curata meno. Ho avuto la fortuna di crescere all’Empoli, dove se sbagli la volta dopo sei comunque in campo perché non gli interessa e credono in te. C’è però stata una fase di stallo per i giovani in Italia, ora il vento sta cambiando. Si possono cogliere meglio le occasioni, tanto dipende anche dalla fortuna del posto in cui ti trovi: magari sei in ritiro e fai bene, magari vai in prestito in una squadra che va male quell’anno e ti ritrovi nel posto sbagliato… devi anche trovarti nel posto giusto, quando sei giovane. Tanti hanno grandissime qualità ma magari hanno un allenatore che non li vede in una determinata posizione e mano a mano si perdono".
"L'Africa? Quest’anno ho fatto l’Uganda, due settimane circa. È la quinta volta che vado in Africa. Il primo anno sono stato in Namibia, poi in Kenya, poi in Madagascar, e adesso tocca all’Uganda. Ho cercato ogni volta di scegliere mete molto diverse tra loro, per completare un po’ quello che è il mio “cerchio” di esperienze africane. Ci vado con la mia famiglia. Mi piace sempre ritagliarmi del tempo per stare con loro. Li vedo anche durante l’anno, vengono a tutte le partite, non ne saltano mai una. Però il viaggio è diverso: sei insieme con calma, senza frenesia. È un modo per vivere un momento vero e profondo con loro, lontano dalla routine. Sono stati tutti belli, sinceramente. Ognuno a modo suo. Però molto dipende anche da come li fai. Per esempio, se vai in Kenya e ti chiudi in un resort, secondo me perdi il senso del viaggio. L’Africa è un’esperienza che va vissuta in movimento, spostandosi, esplorando. Sono viaggi intensi, magari un po’ pesanti – tante ore in macchina, strade dissestate – però ti aprono davvero la mente. Ti trovi davanti a una realtà totalmente diversa, e impari a guardare le cose da una prospettiva nuova. Sono entrato in contatto con la realtà locale, anche se non è semplice. Quando poi torni qui, riprendi subito i tuoi ritmi. Però lì capisci che la loro normalità è diversa. Vivono con molto meno, ma forse hanno anche meno distrazioni. Noi siamo circondati da stimoli continui. Lì ti riconnetti con la realtà, con l’essenziale. Ce ne sono tanti. Mi ricordo in Namibia, era uno dei viaggi più “liberi”: noleggiammo una jeep e giravamo da soli. Una volta ci fermammo da un inglese che aveva aperto una specie di caffetteria, forse l’unico “bar” nel raggio di chilometri. Ci ha raccontato la sua storia, come era finito lì. Il caffè lo faceva filtrato, in un modo particolare. È stato uno di quei momenti in cui ti rendi conto che ogni persona ha un percorso incredibile dietro. Mi è capitato di fare una partita con dei ragazzi in un villaggio in Madagascar. È stato bellissimo. Là basta avere qualcosa di rotondo, non per forza un pallone da Serie A, e si mettono subito a giocare. Mi rivedevo in loro: anche io da piccolo, appena avevo un pallone in mano, giocavo ovunque. È una passione che unisce, che supera qualsiasi barriera".
"Le esperienze selvagge? Tante. In Madagascar, per esempio, abbiamo dormito due notti in tenda su una barca. Ogni sera attraccavamo, montavamo la tenda e dormivamo così. Abbiamo incontrato gente del posto, momenti molto autentici. Cerco sempre di evitare le esperienze troppo “costruite”. Mi piace vivere i posti in modo selvaggio, vero. Un po’ di paura ogni tanto viene, soprattutto di notte, quando dormi in tenda e senti i rumori degli animali. Lì è normale, per noi un po’ meno. Però c’era sempre un ranger con noi durante i safari, quindi in sicurezza. Ricordo in particolare un safari notturno: ci trovammo davanti una giraffa enorme. Era buio, si vedeva solo con la luce rossa del fuoristrada. Un impatto incredibile. Dal punto di vista paesaggistico mi ha colpito la Namibia, sicuramente. Ha qualcosa di unico. È praticamente un deserto che arriva fino al mare – l’Oceano Atlantico. Ovviamente non puoi fare il bagno, è gelido e agitato, però vedi dune che scendono fino alla spiaggia. È surreale. Facevamo escursioni in jeep sulle dune: esperienze che ti rimangono dentro. Ho visitato villaggi locali. Spesso sono abituati a vedere turisti, quindi non è sempre facile trovare posti davvero autentici. Però quando capita, ti rendi conto di quanto poco serva per vivere. La povertà lì ha un altro significato rispetto a come la intendiamo noi. C’è tanta povertà, ma anche tanta dignità. In Madagascar era tutto a chilometro zero. Lì non hanno import-export, quindi mangiano solo quello che coltivano. Tanti piatti a base di riso, carne, verdure. E sono buone, molto buone. Gusti diversi dai nostri, più intensi. C’è un amico di famiglia che ha un’agenzia e ha anche aperto delle scuole in Africa. Ci appoggiamo a lui per organizzare tutto, e cerchiamo di dare una mano anche in quel senso. Vorrei fare tutti i viaggi possibili. L’Asia, per esempio, mi ispira molto, ma non ci sono ancora stato. Ci vuole un po’ più di tempo, perché solo il viaggio ti porta via giorni, e poi bisogna rientrare e tornare subito in forma. Però è sicuramente tra le prossime mete. Magari quando smetterò di giocare, riuscirò a viverla con più calma".
"Ho un preparatore che mi segue a distanza. Quando posso, corro all’alba. In Kenya, ad esempio, ho fatto diverse corse lì: paesaggi mozzafiato. Però spesso mancano le attrezzature, una palestra, dei pesi... quindi non riesco a fare tutto. Per questo motivo cerco di non stare via troppo a lungo: bisogna tornare pronti per la preparazione. È fondamentale, anche se effettivamente è sempre più breve. L’off-season è il momento in cui puoi lavorare su cose che durante l’anno non riesci a fare: puoi concentrarti davvero sulla forza massima, fare carichi importanti. In stagione, invece, si tende a fare lavori più brillanti, più conservativi, magari più focalizzati sulla prevenzione. Ma in off-season hai il tempo di strutturare meglio tutto, ed è un lavoro che poi ti ritrovi durante l’anno. Ogni anno impari qualcosa di nuovo. Alla fine cerchi di conciliare tutto, di capire cosa funziona meglio per te. Ovviamente mi affido sempre a preparatori: non puoi inventarti gli esercizi, anche se ormai so quando e cosa fare, so gestirmi. Però sono tutte cose che impari con l’esperienza".
"Gli inizi? Non riesco a tornare molto a Pisa, a meno che non abbia tre giorni liberi. Ma sono sempre in contatto, specialmente con gli amici del bar, ho tanti amici anche più grandi di me, o di famiglia, quindi cerco sempre di ritagliarmi un’oretta per andare a trovarli. Sono tutti grandi appassionati di calcio e lavorano nelle società dilettantistiche della zona. Mi faccio due risate. Da piccolo andavo spesso a vedere il Pisa allo stadio con mio babbo, sono stato felice della promozione in Serie A".
"In cosa migliorare? Devo migliorare in tante cose. Tecnicamente, certo, ma anche dal punto di vista della presenza in campo. Non parlo tanto della grinta, quanto proprio del riuscire a essere più "dentro" la partita. A volte mi piace abbassarmi a prendere palla, ma magari perdo qualcosa nella fase difensiva, quella più dura. Però rispetto a com’ero prima, anche grazie al lavoro fatto recentemente, sono migliorato tanto, soprattutto fisicamente. Ho lavorato molto sulla forza nei primi anni, e ogni stagione continuo a migliorare. I margini ci sono sempre, sotto tanti aspetti: fisico, mentale, ma anche extra-campo, come l’approccio e la preparazione. A livello tattico quello forse è un po’ più difficile se non hai una predisposizione naturale, ma è comunque un’area in cui cerco di crescere. Poi, tutto ciò che riguarda la parte atletica, la puoi allenare anche al di fuori del campo, ed è lì che puoi fare la differenza".
"Modelli? Mi piace molto Rodri, anche se fa un gioco un po’ diverso. In Italia mi piace molto Lobotka, secondo me è fortissimo in entrambe le fasi e riesce ad abbinarle molto bene. Ci sono tanti centrocampisti che ammiro, anche mezzali, che magari non fanno il mio ruolo, ma da cui si può imparare molto. Mi ricordo Sergej Milinković-Savić… era Empoli-Lazio, il giorno del mio esordio, abbiamo perso 3-1. Mi ha colpito tantissimo e ho pensato subito: ‘Se tutti gli altri sono così…’. È stato un impatto forte!".