Maldini:"E' un Milan senza amore. Cardinale, Scaroni e co..."

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Anche a me piacerebbe avere un Maldini + un po' d'italiani. Però ammettere solo i propri preggi senza parlare dei propri errori non va bene.

Come sempre i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Parliamo di un Milan che era alla deriva sportiva e finanziaria, forse tendiamo a scordarci da dove venivamo.
Certo, gli errori sono stati tanti, e spesso imputabili al primo anno di gestione, dove si é voluto fare tanto e subito (Higuain, Caldara, Piatek...), ma i risultati sono stati di quelli di far tornare il Milan in Champions, di vincere uno scudetto, di rivalutare la squadra e con fatturati record ed il tutto in un contesto lavorativo desolante in molti sensi.


Il percorso non puo' essere giudicato in un solo anno, in cui peraltro si é centrata una semifinale di Champions che ha permesso alla società di andare in positivo e non metterci un centesimo in più del previsto.

Io veramente non capisco le premesse della critica. Cosa doveva dire per far contenti tutti? "Eh, abbiamo fatto male a prendere Vranks e Dest".
 

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La tua ricostruzione è corretto ma ti domando: siamo sicuri che Furlani stia facendo gli interessi di Singer? Nel senso che ad Elliott interessa che il Milan sia in attivo e non produca perdite, dubito gli importi qualcosa chi fa il DS o chi si presenta a Milanello. Sto iniziando a pensare che Furlani si sia fatto prendere la mano e stia andando oltre i compiti che gli erano stati affidati e se questo porterà ad un deterioramento dei conti non sono così certo che i Singer, che lo hanno messo lì, rimangano impassibili. Del resto lo stesso Currò aveva scritto che Ibra a San Siro aveva parlato più con Gordon Singer che con Cardinale...

Sai quali sono gli interessi di Elliott? Riprendersi il a Milan alla svelta dall'ennesimo fantoccio
 
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Comunque non pensate che questo viscido omuncolo di Furlani abbia tutto questo credito.
Fa il galletto solamente perché ha dietro Gordon Singer, è il suo uomo di fiducia.

Cardinale si piscia addosso se sente il nome di Gordon Singer, non quello di Furlani. Sono sempre loro i grandi burattinai di questa povera società.
Cardinale ha usato il rapporto tra Paolo e Furlani come scusa per mandarlo via, poi virando sulla semifinale di Champions persa contro l'Inter per mancanza di argomenti.

Per il resto, Paolo ha chiaramente fatto intendere che rivaluta Furlani, perché era conscio di come sarebbe finita da molto prima. Qui pero' non so cosa si possa imputare a Furlani, non é che a Febbraio puoi andare a destabilizzare tutto l'ambiente in piena stagione.

Alla fine Furlani in questa storia c'entra poco, sicuramente ha lo stesso amore verso il Milan di Paolo, ma nell'intervista fa chiaramente intendere che Cardinale lo voleva buttare fuori da subito. Furlani o no.
 
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Ecco tutta l'intervista completa di Paolo Maldini a Repubblica, che vuota il sacco e sgancia bombe su Cardinale, Furlani Scaroni e gli algoritmi. Consigli a Ibra sul futuro. E la cessione di Tonali...

ATTENZIONE: LEGGERE, COMMENTARE E MINIMO FLAME BAN DEFINITIVO

ECCO TUTTA L'INTERVISTA DAL SITO DI REPUBBLICA. DI SEGUITO GLI SCREEN DEL GIORNALE IN EDICOLA



Paolo Maldini, perché ha aspettato quasi 6 mesi per rompere il silenzio dopo il suo licenziamento e quello del ds Massara?
“Perché avrei parlato troppo di pancia. Ma ora è maturo il tempo per analizzare quanto è accaduto con quella serenità che la distanza temporale permette. Mi piace essere onesto e prendermi le mie responsabilità, ma vorrei che le cose venissero considerate nella loro effettività e valutate nella maniera giusta. Farei subito una premessa”.


Prego.
“Sarò per sempre grato a Leonardo, che mi ha chiamato nel 2018, al fondo Elliott, che mi ha fatto firmare il primo contratto e a Redbird che me lo ha rinnovato, anche se con qualche difficoltà. In questi 5 anni ho imparato tanto, ho avuto relazioni personali e professionali che mi porterò dietro per sempre e sono anche cresciuto in un ruolo completamente diverso, il che non era scontato: la regola è che spesso il grande calciatore non riesca a fare quel salto di qualità. Ci sono persone che sono di passaggio in istituzioni come il Milan, nel mondo dei club di calcio di profilo internazionale, e che non hanno un reale rispetto della sua identità e della sua storia. Non sono incaricate e non si muovono per dare una visione per le nuove generazioni di tifosi. Spesso sono manager che vengono a lavorare in un grande club di grande prestigio e popolarità anche per migliorare il proprio curriculum e poi andare da un’altra parte. Per contro, invece, ci sono persone che hanno a cuore tutte queste cose, molto più a lungo termine e molto più legate agli ideali che il club, nel corso della sua storia, ha insegnato a tanti, sul campo e fuori. Purtroppo, nel calcio professionistico moderno, la popolazione della prima tipologia di persone sta diventando sempre più numerosa. Io credo che bisognerebbe tenersi stretto chi è portatore di ideali e orienta il proprio lavoro per salvaguardarne valori e identità”.

Non si aspettava il divorzio?
“Se il Milan è stato venduto a 1,2 miliardi di euro e la proprietà vuole cambiare l’organigramma, ne ha il diritto. Anche in questo caso, però, le modalità sono importanti e tante cose non sono andate come sarebbe stato doveroso, per rispetto delle persone e dei loro ruoli. Ho dovuto discutere per trovare un accordo e per non rinunciare ai miei diritti, ma avevo detto subito all’ad Furlani che l’ultima cosa che avrei voluto era un contenzioso con il club: vi rendete conto, gli ho spiegato, che sarebbe la seconda causa di una leggenda del cub al gruppo proprietario del Milan in due anni, dopo quella (persa!) con Boban? Una cosa è certa: il mio amore per il Milan sarà sempre incondizionato. Da figlio di Cesare. Da ex capitano. Da papà di Christian e Daniel, che al Milan sono passati. E poi anche da dirigente: sono stati cinque anni fantastici”.


A giudicare dai cori per lei, nello spettacolo teatrale di Giacomo Poretti cui ha preso parte a Milano, il pubblico ha capito.
“Spesso si pensa che il pubblico non capisca e che si faccia condizionare dalla comunicazione, magari studiata a tavolino, ma per fortuna così non sembra. È inutile nascondere che tutti quelli che hanno avuto a che fare con la galassia Milan in questi anni siano stati indirizzati nel veicolare sui media compiacenti una certa storia: chi dice il contrario sa di mentire a se stesso. Io ho pensato agli interessi esclusivi della squadra (e perciò del club, dal momento che la squadra rappresenta l’asset principale di una società sportiva), credendo che i risultati avrebbero avuto la meglio su una narrazione proposta senza curarsi del fatto che corrisponda o meno alla realtà. E la verità è che spesso ex calciatori come me, Boban e Leonardo, hanno sempre esercitato il proprio ruolo in piena autonomia di giudizio, ma senza mai travalicare i rispettivi ambiti di competenza. Aggiungo che questa indipendenza deve sempre contraddistinguere noi stessi, che quasi certamente non potremmo farne a meno, anche quando assumiamo ruoli o responsabilità manageriali. Si chiama, se non sbaglio, professionalità”.

Secondo Gerry Cardinale, l’azionista di controllo del Milan, lei era un individualista, allergico al lavoro di gruppo.
“Appunto, direi che confonde l’individualismo con la volontà di essere responsabile nel prendere le decisioni previste dal mio ruolo e magari nel pagarne le conseguenze, trascurando peraltro le prerogative che il contratto, che lui ha firmato, mi attribuiva. Io non mi sono mai sottratto al confronto: il confronto quotidiano stimola l’ingegno e apre a visioni diverse. Siamo spesso circondati da persone che ci danno sempre ragione: avere amici o colleghi che sfidano le tue certezze è una benedizione. In questi cinque anni ho capito che la capacità di assumere e gestire responsabilità personali, cioè individuali, non è così comune. Chi ha giocato a calcio ad alto livello ha meno paura di fallire, essendo stato giudicato per tutta la vita ogni tre giorni. Questo rappresenta un grande vantaggio e ha un grande impatto su un’azienda, ma può non essere gradito a chi non è aperto al confronto e non condivide neppure l’idea anche di rispondere dei propri errori, che per me è normalissima, sana, dialettica di ogni gruppo dirigente che si rispetti. Io ho sempre voglia di imparare: alcune cose del passato, ad esempio alcune critiche al Milan, oggi non le farei più, perché ho capito che cosa vuol dire gestire l’ area tecnica di una società ambiziosa, a livello globale, nello sport professionistico”.


Da che cosa erano dettate quelle critiche?
“Più dal sentimento che dalla ragione e sinceramente dalla poca esperienza: certe dinamiche, fino a quando non sei dall’altra parte, non puoi capirle. Il primo anno l’ho passato ad ascoltare e imparare, era apprendistato. Nei primi 6 mesi mi sentivo inutile, ma Leonardo mi diceva: stai solo imparando. Non è facile avere come interlocutore un fondo americano o un Ceo sudafricano: la mia visione del calcio, rispetto al 2018, è stata stravolta. Ma lo ripeto: non ho mai avuto, né avrò mai paura del confronto”.


E sul mercato?
“È stato veicolato il concetto che io e Massara siamo stati allontanati perché non condividevamo obiettivi e strategie di mercato: niente di più lontano dal vero. Anche da un punto di vista formale. Infatti, se parliamo delle condizioni di ingaggio, non ho mai avuto potere di firma neanche per i prestiti. Ogni giocatore che è stato preso è stato scelto da me, Boban e Massara, ogni scelta condivisa con l’ad e con la proprietà. Ma la firma era sempre di qualcun altro che avallava l’operazione. Più o meno sono 35-40 i giocatori del nostro ciclo e io non ho firmato i contratti per nessuno di loro, neanche per quelli in prestito, perché non avevo il potere di firma, non l’ho mai voluto. Anzi, tante soluzioni proposte non sono state approvate: mi è stato detto di no tantissime volte. Capita. A volte mi dicevano semplicemente di no, a volte veniva ridimensionato il budget. Nelle riunioni sentivo spesso: “Io non capisco niente di calcio”, ma alla fine c’era sempre un però. Non sono nato ieri, ho abbastanza esperienza per capire che sia normale una certa differenza di vedute, a volte anche un’interferenza da parte della proprietà nelle scelte tecniche dell’area sportiva, che poi, nel caso specifico, è il core business dell’azienda, tale da spostare gli equilibri finanziari. Tuttavia essere accusato di non avere voluto condividere non lo trovo affatto giusto. E poi io penso che le proprietà, specialmente se straniere, non abbiano ancora raggiunto una piena consapevolezza di quali siano la mole e il tipo di lavoro svolti all’interno del club dalle varie aree, in particolare da quella sportiva, soprattutto nel mercato italiano. Preciso che tutti i giocatori che sono arrivati sono stati approvati da me: non mi è stato mai imposto niente e nessuno, anche perché me ne sarei andato il giorno dopo. Per lo stesso ingaggio di Zlatan, a suo tempo, erano servite parecchie riunioni”.

A proposito di Ibrahimovic, pensa che tornerà al Milan?
“Non lo so, non conosco i termini della questione, né l’eventuale ruolo, leggo che sarebbe indicato come consigliere personale di Cardinale. Quello che gli posso suggerire è di seguire il mio stesso percorso: all’inizio sarebbe logico osservare e imparare prima di agire”.


Paolo Maldini, perché ha aspettato quasi 6 mesi per rompere il silenzio dopo il suo licenziamento e quello del ds Massara?
“Perché avrei parlato troppo di pancia. Ma ora è maturo il tempo per analizzare quanto è accaduto con quella serenità che la distanza temporale permette. Mi piace essere onesto e prendermi le mie responsabilità, ma vorrei che le cose venissero considerate nella loro effettività e valutate nella maniera giusta. Farei subito una premessa”.

Prego.
“Sarò per sempre grato a Leonardo, che mi ha chiamato nel 2018, al fondo Elliott, che mi ha fatto firmare il primo contratto e a Redbird che me lo ha rinnovato, anche se con qualche difficoltà. In questi 5 anni ho imparato tanto, ho avuto relazioni personali e professionali che mi porterò dietro per sempre e sono anche cresciuto in un ruolo completamente diverso, il che non era scontato: la regola è che spesso il grande calciatore non riesca a fare quel salto di qualità. Ci sono persone che sono di passaggio in istituzioni come il Milan, nel mondo dei club di calcio di profilo internazionale, e che non hanno un reale rispetto della sua identità e della sua storia. Non sono incaricate e non si muovono per dare una visione per le nuove generazioni di tifosi. Spesso sono manager che vengono a lavorare in un grande club di grande prestigio e popolarità anche per migliorare il proprio curriculum e poi andare da un’altra parte. Per contro, invece, ci sono persone che hanno a cuore tutte queste cose, molto più a lungo termine e molto più legate agli ideali che il club, nel corso della sua storia, ha insegnato a tanti, sul campo e fuori. Purtroppo, nel calcio professionistico moderno, la popolazione della prima tipologia di persone sta diventando sempre più numerosa. Io credo che bisognerebbe tenersi stretto chi è portatore di ideali e orienta il proprio lavoro per salvaguardarne valori e identità”.


Non si aspettava il divorzio?
“Se il Milan è stato venduto a 1,2 miliardi di euro e la proprietà vuole cambiare l’organigramma, ne ha il diritto. Anche in questo caso, però, le modalità sono importanti e tante cose non sono andate come sarebbe stato doveroso, per rispetto delle persone e dei loro ruoli. Ho dovuto discutere per trovare un accordo e per non rinunciare ai miei diritti, ma avevo detto subito all’ad Furlani che l’ultima cosa che avrei voluto era un contenzioso con il club: vi rendete conto, gli ho spiegato, che sarebbe la seconda causa di una leggenda del cub al gruppo proprietario del Milan in due anni, dopo quella (persa!) con Boban? Una cosa è certa: il mio amore per il Milan sarà sempre incondizionato. Da figlio di Cesare. Da ex capitano. Da papà di Christian e Daniel, che al Milan sono passati. E poi anche da dirigente: sono stati cinque anni fantastici”.

A giudicare dai cori per lei, nello spettacolo teatrale di Giacomo Poretti cui ha preso parte a Milano, il pubblico ha capito.
“Spesso si pensa che il pubblico non capisca e che si faccia condizionare dalla comunicazione, magari studiata a tavolino, ma per fortuna così non sembra. È inutile nascondere che tutti quelli che hanno avuto a che fare con la galassia Milan in questi anni siano stati indirizzati nel veicolare sui media compiacenti una certa storia: chi dice il contrario sa di mentire a se stesso. Io ho pensato agli interessi esclusivi della squadra (e perciò del club, dal momento che la squadra rappresenta l’asset principale di una società sportiva), credendo che i risultati avrebbero avuto la meglio su una narrazione proposta senza curarsi del fatto che corrisponda o meno alla realtà. E la verità è che spesso ex calciatori come me, Boban e Leonardo, hanno sempre esercitato il proprio ruolo in piena autonomia di giudizio, ma senza mai travalicare i rispettivi ambiti di competenza. Aggiungo che questa indipendenza deve sempre contraddistinguere noi stessi, che quasi certamente non potremmo farne a meno, anche quando assumiamo ruoli o responsabilità manageriali. Si chiama, se non sbaglio, professionalità”.



Secondo Gerry Cardinale, l’azionista di controllo del Milan, lei era un individualista, allergico al lavoro di gruppo.
“Appunto, direi che confonde l’individualismo con la volontà di essere responsabile nel prendere le decisioni previste dal mio ruolo e magari nel pagarne le conseguenze, trascurando peraltro le prerogative che il contratto, che lui ha firmato, mi attribuiva. Io non mi sono mai sottratto al confronto: il confronto quotidiano stimola l’ingegno e apre a visioni diverse. Siamo spesso circondati da persone che ci danno sempre ragione: avere amici o colleghi che sfidano le tue certezze è una benedizione. In questi cinque anni ho capito che la capacità di assumere e gestire responsabilità personali, cioè individuali, non è così comune. Chi ha giocato a calcio ad alto livello ha meno paura di fallire, essendo stato giudicato per tutta la vita ogni tre giorni. Questo rappresenta un grande vantaggio e ha un grande impatto su un’azienda, ma può non essere gradito a chi non è aperto al confronto e non condivide neppure l’idea anche di rispondere dei propri errori, che per me è normalissima, sana, dialettica di ogni gruppo dirigente che si rispetti. Io ho sempre voglia di imparare: alcune cose del passato, ad esempio alcune critiche al Milan, oggi non le farei più, perché ho capito che cosa vuol dire gestire l’ area tecnica di una società ambiziosa, a livello globale, nello sport professionistico”.

Da che cosa erano dettate quelle critiche?
“Più dal sentimento che dalla ragione e sinceramente dalla poca esperienza: certe dinamiche, fino a quando non sei dall’altra parte, non puoi capirle. Il primo anno l’ho passato ad ascoltare e imparare, era apprendistato. Nei primi 6 mesi mi sentivo inutile, ma Leonardo mi diceva: stai solo imparando. Non è facile avere come interlocutore un fondo americano o un Ceo sudafricano: la mia visione del calcio, rispetto al 2018, è stata stravolta. Ma lo ripeto: non ho mai avuto, né avrò mai paura del confronto”.

E sul mercato?
“È stato veicolato il concetto che io e Massara siamo stati allontanati perché non condividevamo obiettivi e strategie di mercato: niente di più lontano dal vero. Anche da un punto di vista formale. Infatti, se parliamo delle condizioni di ingaggio, non ho mai avuto potere di firma neanche per i prestiti. Ogni giocatore che è stato preso è stato scelto da me, Boban e Massara, ogni scelta condivisa con l’ad e con la proprietà. Ma la firma era sempre di qualcun altro che avallava l’operazione. Più o meno sono 35-40 i giocatori del nostro ciclo e io non ho firmato i contratti per nessuno di loro, neanche per quelli in prestito, perché non avevo il potere di firma, non l’ho mai voluto. Anzi, tante soluzioni proposte non sono state approvate: mi è stato detto di no tantissime volte. Capita. A volte mi dicevano semplicemente di no, a volte veniva ridimensionato il budget. Nelle riunioni sentivo spesso: “Io non capisco niente di calcio”, ma alla fine c’era sempre un però. Non sono nato ieri, ho abbastanza esperienza per capire che sia normale una certa differenza di vedute, a volte anche un’interferenza da parte della proprietà nelle scelte tecniche dell’area sportiva, che poi, nel caso specifico, è il core business dell’azienda, tale da spostare gli equilibri finanziari. Tuttavia essere accusato di non avere voluto condividere non lo trovo affatto giusto. E poi io penso che le proprietà, specialmente se straniere, non abbiano ancora raggiunto una piena consapevolezza di quali siano la mole e il tipo di lavoro svolti all’interno del club dalle varie aree, in particolare da quella sportiva, soprattutto nel mercato italiano. Preciso che tutti i giocatori che sono arrivati sono stati approvati da me: non mi è stato mai imposto niente e nessuno, anche perché me ne sarei andato il giorno dopo. Per lo stesso ingaggio di Zlatan, a suo tempo, erano servite parecchie riunioni”.

A proposito di Ibrahimovic, pensa che tornerà al Milan?
“Non lo so, non conosco i termini della questione, né l’eventuale ruolo, leggo che sarebbe indicato come consigliere personale di Cardinale. Quello che gli posso suggerire è di seguire il mio stesso percorso: all’inizio sarebbe logico osservare e imparare prima di agire”.


Anche se la ferita sarà dolorosa, può tornare a quel 5 giugno fatidico?
“Gerry Cardinale mi ha chiamato per colazione e dopo un commento sull’addio al calcio giocato di Zlatan mi ha detto che voleva cambiare e che io e Ricky Massara eravamo licenziati. Gli ho chiesto perché e lui mi ha parlato di cattivi rapporti con Furlani. Allora io gli ho detto: ti ho mai chiamato per lamentarmi di Furlani? Mai. C’è stata anche una sua battuta sulla semifinale di Champions persa con l’Inter, ma diciamo che le motivazioni mi sono sembrate un tantino deboli. Le cosiddette assumptions, gli obiettivi sportivi ed economici di inizio stagione, erano state clamorosamente superate”.

Quali erano?
“Ipotizzando l’eliminazione dalla Champions, qualificarsi per la Champions successiva e passare un turno in Europa League”.

Il club dava per scontato che in Champions la squadra non avrebbe passato la fase a gironi?
“Erano previsioni molto conservative, che tra l’altro sono stata riconfermate quest’anno anche dopo la campagna acquisti importante di quest’estate. Ma nella scorsa stagione, a livello economico, la semifinale ha portato almeno 70 milioni di introiti in più, oltre all’indotto derivante da sponsorizzazioni e ticketing, settori in cui abbiamo battuto record su record. Non è un caso che poi l’ultimo bilancio porti il segno positivo. Quel bilancio è riferito alla stagione 2022-2023. Siamo andati ben oltre il risultato sportivo, era impossibile imputarmi di non aver centrato gli obiettivi”.

Cardinale eccepiva?
“Cardinale l’ho incontrato di sfuggita in occasione di qualche partita di Champions, ma nell’arco di un anno ho avuto solo una chiacchierata su come andasse la gestione sportiva. Mi ha scritto 4 messaggi per i vari passaggi del turno, senza neanche chiamarmi. La prima cosa che mi ha detto, quando ci siamo conosciuti, è stata che dovevamo fidarci l’uno dell’altro, ancora prima di conoscerci di più, perché non avevamo tempo. Io mi sono fidato e sinceramente come è andata è noto a tutti. Io credo che la decisione di licenziare me e Massara fosse stata presa molti mesi prima. E a posteriori mi vedo costretto a riconsiderare il rapporto con alcune persone, che lavoravano con me e che sicuramente, mi riesce difficile immaginare il contrario, erano già al corrente di quella decisione. D’altronde il contratto, di due anni con opzione di rinnovo, mi era stato rinnovato solo il 30 giugno 2022 alle 22. Credo che all’epoca sarebbe stato troppo impopolare mandarci via, perché avevamo appena vinto lo scudetto”.

Che cosa le disse la società?
“Cardinale voleva vincere la Champions. Io gli dissi che era necessario un piano triennale per pensare a quell’obiettivo e lui mi propose due anni più opzione di uno. In quel momento chiesi due anni: pensavo che ci sarebbe stato tempo, dopo, per discutere di piani. Se poi fosse stato contento, mi avrebbe proposto il rinnovo lui”.

È vero che a febbraio 2023 lei aveva presentato un piano triennale di sviluppo?
“Verissimo. In 3-4 mesi, da ottobre a febbraio, l’ho preparato con Massara e con un mio amico consulente. Erano 35 pagine: raccontavo i 4 anni trascorsi e gli obiettivi, secondo una strategia sostenibile economicamente, ma con la necessità di un salto di qualità”.

Risposte?
“Nessuna. Ho mandato il piano a Cardinale, a due suoi collaboratori molto stretti, con uno dei quali si tenevano call settimanali ogni lunedì alle 18, e all’ad Furlani. Non ho ricevuto alcuna risposta. Forse non abbiamo ascoltato il campanello d’allarme perché eravamo concentrati sulle tante cose che il mio ruolo e quello di Massara prevedono. Dopo avere acquistato circa 35 giocatori ci viene contestato l’ingaggio di De Ketelaere, che peraltro aveva 21 anni, un’età in cui non sempre l’adattamento è immediato. Chi ha giocato a calcio sa che non sempre si è strutturati a quell’età per sostenere un salto così importante come quello fatto da Charles: i ragazzi vanno aspettati, aiutati, coccolati e ripresi, continuamente. Chi pensa che il lavoro dell’area sportiva sia solamente quello di fare mercato sbaglia tutto: allenatori, calciatori e staff hanno bisogno di supporto continuo. Spesso si scommette solo sul talento senza sapere come svilupparlo, gli esempi più lampanti sono Chelsea e Manchester United: grandissimi investimenti sul mercato e gestione insufficiente portano a risultati molto scadenti. Non sempre il talento viene riconosciuto, quando si scommette su potenzialità di ragazzi giovani il rischio di insuccesso è molto alto. Dopo appena 3 mesi di lavoro, Boban e Massara ed io fummo chiamati a Londra da proprietà e Ceo e praticamente esautorati, delegittimati ad esercitare i nostri ruoli, perché i vari Leao, Bennacer e Theo non piacevano. Noi sapevamo che il Leao del Lille poteva diventare una stella, ma che gli sarebbe servito un percorso e la stessa cosa valeva per Theo, Ismael e per tutti quelli che sono arrivati successivamente. Ricordiamo sempre da dove siamo partiti”.


Vuole riassumere?
“Nel 2018-19 avevamo una squadra avanti con gli anni e poco performante, erano ormai sei anni che il Milan non si qualificava per la Champions League. Il valore complessivo della rosa era di circa 200 milioni e il monte ingaggi di 150. La ristrutturazione, con giocatori giovani, è stata fatta in 4 anni con una spesa al netto delle cessioni di 120 milioni, 30 a stagione e 15 per sessione. Il valore della rosa è passato a circa 500 milioni, il monte ingaggi è sceso il primo anno a 120 e poi a 100 per i tre successivi, anche se, come spiegavo nel piano strategico, il taglio degli stipendi aveva portato al mancato rinnovo di giocatori come Çalhanoglu e Kessié, con i quali avremmo avuto un centrocampo tra i più forti d’Europa. Alla fine della stagione scorsa contavamo tre partecipazioni di fila alla Champions, uno scudetto vinto dopo11 anni, una semifinale di Champions dopo 16 e un bilancio in positivo dopo 17 . Se si resta sempre sul filo, basta sbagliare una stagione per rovinare il lavoro fatto in quelle precedenti”.


Qual era il budget per il 2023-24?
“Nelle squadre di calcio in genere la previsione di budget va affrontata intorno a marzo, ma il mio settore, tra l’altro il più importante, era l’unico per il quale non se n’era ancora parlato. Più volte ho chiesto un incontro per parlare di numeri e strategie, dato che non si può aspettare giugno per programmare il mercato. Poi, 4 giorni prima del licenziamento, Furlani mi ha comunicato molto imbarazzato che il budget sarebbe stato molto basso. A prescindere da come è finita, io sono contento per il Milan e i suoi tifosi per almeno due cose: il budget di spesa sul mercato, dopo la nostra partenza, è finalmente raddoppiato, al netto cioè della cessione di Tonali, e il monte ingaggi è finalmente cresciuto, in linea con il piano che avevamo inviato. Il nostro documento strategico deve essere diventato improvvisamente fonte di ispirazione!”.


Avreste mai ceduto Tonali?
“Avremmo fatto tutto il possibile per non lasciarlo andare via, anche di fronte a un’offerta così importante. Non siamo mai stati totalmente contrari alla cessione di uno dei nostri calciatori importanti, ma non c’era neanche una reale necessità. Mi piace ricordare che spendemmo per acquistarlo una cifra pari a circa un quinto del valore di cessione di dominio pubblico e che anche in quel caso dovemmo discutere animatamente con Ceo e proprietà: nessuno di loro voleva comprarlo, neanche l’area scouting”.


Poi Tonali è incappato nel caso scommesse.
“Sono rimasto scioccato. Mi dispiace: non mi sono reso conto del suo disagio. Questo mi fa capire una volta di più che non si fa mai abbastanza per cercare di gestire e capire questi ragazzi. È una sconfitta anche per noi quello che è successo a Sandro”.


Colpa dei social?
“Ai giocatori dicevo spesso di distinguere la vita reale da quella dei social, anche quando si sentono attaccati e offesi da un mondo senza regole. Si deve aspirare a qualcosa di più radicato e profondo, anche se il “sentiment”, una parola che ho sentito spesso a Casa Milan e che mi fa sorridere, magari è un altro. Di sicuro, come abbiamo detto precedentemente, acquisti e cessioni sono solo una piccola parte del lavoro dell’ area sportiva”.


Qual è quello meno appariscente?
“Il lavoro con i giocatori. Con Leao, Theo Hernandez, Bennacer, Maignan, Kalulu, Thiaw, Tomori e molti altri, il vero lavoro è stato supportarli nel loro sviluppo. Se noi pensiamo che i giocatori non abbiano bisogno di supporto, sbagliamo. Sinceramente, quando oggi leggo che Theo e Leao sono il problema del Milan, dico che al mondo si può davvero raccontare tutto e il contrario di tutto: sono due campioni, ma la loro crescita non è ancora completata e necessitano di qualcuno che li aiuti. I giocatori hanno bisogno di tempo per maturare e di persone che parlino con loro: è anche il bello del nostro lavoro, è il frutto della nostra esperienza. Spesso ho fatto mente locale, pensando a me quando ero calciatore: allora non si usava, ma avrei avuto tantissimo bisogno di supporto. D’altronde, se l’equazione tra la spesa sul mercato e il risultato fosse corretta e infallibile, Psg, Chelsea e Manchester United avrebbero vinto tutto più volte”.


Nel Milan attuale manca una figura del genere: tutto ricade sulle spalle di Pioli.
“Innanzitutto Stefano andrebbe ringraziato sempre dai tifosi milanisti, il suo lavoro è stato fondamentale per la crescita dei giovani calciatori che sono arrivati al Milan, li ha fatti giocare e li ha aiutati a diventare quello che sono adesso, è stata una figura chiave delle nostre fortune. Vorrei ricordare però che l’allenatore è una tra le persone più sole del mondo del calcio. Dargli compiti che esulano dai suoi lo renderà sempre più solo, se non verrà supportato”.


Avrebbe voluto sostituire Pioli con Pirlo?
“Il ruolo di responsabile dell’area tecnica nel settore sportivo impone di avere incontri e confronti frequenti. Sono un momento di crescita generale, se avvengono con toni rispettosi, come è sempre successo. Ci stavamo già confrontando per la stagione successiva. Siamo stati noi a rinnovare il suo contratto fino al 2025, perché lo meritava. Se ci fosse stata, come negli anni passati, un’unità di intenti e visioni con gli obiettivi societari, non vedo perché l’avremmo dovuto cambiare”.


Il presidente del Milan, Paolo Scaroni, ha dichiarato che senza di lei adesso il gruppo di lavoro è unito.
“Mi dà fastidio come si raccontano le cose. Il Milan merita un presidente che faccia solo gli interessi del Milan, insieme a un gruppo dirigenziale che non lasci mai la squadra sola. La condivisione e il supporto sono principi da attuare nei momenti belli come in quelli brutti. In questi anni non ho mai percepito una chiara condivisione di che cosa voglia dire lavorare di squadra: non mi ha mai ha chiesto se ci fosse stato bisogno di due parole di incoraggiamento ai giocatori e al nostro gruppo di lavoro, in pubblico o in privato. Mai ho ricevuto supporto nei tanti momenti difficili. Anzi. In tribuna l’ho visto spesso andare via quando gli avversari pareggiavano o passavano in vantaggio, magari solo per non trovare traffico. Mentre me lo ricordo puntualissimo in prima fila, quando abbiamo vinto lo scudetto: per questo non so che cosa si sia voluto dire con l’espressione “gruppo unito senza” di me. Ma è evidente che io ho un concetto diverso di condivisione e di gruppo. Posso dire che la stessa cosa è avvenuta anche con i due Ceo Gazidis e Furlani”.


Che cosa pensa dei famosi algoritmi?
“La narrazione su questo tema mi ha fatto un pochino sorridere: non c’è bisogno di scomodare gli algoritmi per prendere Loftus-Cheek, Pulisic e Chukwueze, basta utilizzare per il mercato i soldi che una società che finalmente fattura 400 milioni merita. Non si possono paragonare le quattro annate precedenti con l’ultima, abbiamo combattuto sul mercato con armi diverse, ma mi fa piacere che adesso non ci sia più il freno a mano tirato. Detto ciò, abbiamo sempre utilizzato l’intelligenza artificiale, strumento ormai indispensabile in qualunque attività, senza tuttavia pensare ragionevolmente che una società sportiva possa essere gestita da un algoritmo. Le molteplici variabili del calcio non lo consentirebbero. È forse per questo che ancora questo sport appassiona milioni di persone”.


Lei ha detto di avere imparato ad apprezzare la cosiddetta sostenibilità.
“Sì, è stata una sfida. La sostenibilità mi ha conquistato: avevamo poche possibilità di riuscita, ma è stato molto sfidante tagliare del 30% il monte ingaggi, rinnovare la rosa e aumentare il valore dei calciatori arrivando allo scudetto e a 3 anni di Champions, dopo 7 senza. L’ho fatto con Boban e Massara, attraverso condivisione di principi, di conoscenza ed esperienza, e utilizzando anche strumenti, legati alle statistiche, che io e Zvone conoscevamo meno rispetto a Ricky. Pensiamo che siano parte di una decisione finale che deve essere presa da persone che abbiano una visione completa”.


Il nuovo stadio è davvero così centrale per il salto di qualità?
“Lo stadio è stato un motivo di scontro. Io non potevo mettere la faccia su un progetto da 55-60 mila posti, quasi tutti corporate e con pochissimi biglietti popolari. Non potevo lasciare un’eredità così alle nuove generazioni milaniste. Non potevo supportare questo piano. Ho lottato per fare capire che serviva uno stadio più grande e con parte di posti accessibili a tutti. La media di oltre 70 mila spettatori a San Siro, la scorsa stagione, dimostra che avevo ragione”.


Qual è la sua idea?
“Un nuovo San Siro moderno e accogliente è fondamentale. L’idea che lo stadio nuovo dia 80 milioni in più da investire sul mercato è da rivalutare, come dimostrano i numeri della stagione scorsa. Quando raccontavo le potenzialità e l’unicità che ha il Milan rispetto ad altri club, probabilmente suscitavo ilarità. Ma io so che è così. Se ci fosse la possibilità, e in questo il sindaco è assolutamente responsabile, lo stadio lo farei a San Siro, magari ancora con l’Inter. Dopo 5 anni non solo non c’è il primo mattone, ma non sappiamo neanche dove si farà lo stadio: non mi sembra un gran successo. Quella del nuovo San Siro sarebbe anche una grande occasione per la rivalutazione dell’area: è verde destinato ai cittadini di una zona di Milano che rischia l’abbandono. Milano, negli ultimi 10 anni, è ridiventata trainante in Europa perché abbiamo superato vecchie barriere mentali. Dobbiamo avere paura del degrado, non del futuro. L’attuale San Siro è iconico, ma rendiamoci conto che sono stati i grandi campioni che ci hanno giocato a renderlo tale. È ancora fantastico dal punto di vista sportivo, ma serve una nuova storia: il passato è passato, Milano ha sempre guardato al futuro”.


Nel passato il Milan aveva molti più giocatori italiani.
“I ragazzi italiani devono avere più coraggio, devono darsi una mossa. Se occorre, devono andare anche a giocare di più all’estero, dove i giovani vengono buttati nella mischia. Li fanno giocare e loro devono dimostrare di essere all’altezza. In Italia li teniamo spesso nella bambagia”.


Conferma di avere pensato a Messi?
“Confermo che ci abbiamo pensato. Dopo il Barcellona era libero e il club ha fatto fare una proiezione sull’indotto del suo ingaggio. Era un’operazione fattibile, ci avrebbe aiutato il decreto crescita. Ne valeva la pena. Ma quando ho sentito Leonardo, ci ha detto che l’affare col Psg era già molto avanti ed è rimasta solo un’idea”.


Paolo Maldini dirigente in Arabia Saudita: è solo una suggestione?
“Per il mio lavoro le alternative al Milan sono molto limitate. Non potrei mai andare in un’altra squadra italiana, eventualmente valuterei solo l’offerta di una squadra straniera di alto livello. A me piace vincere e costruire. L’Arabia potrebbe essere una opzione stimolante, chissà”.


Resterà nel board Uefa di ex campioni e allenatori per le riforme tecniche del calcio?
“Sì. L’idea di Boban è azzeccata. Continuerò. Nel confronto tra arbitri, capi arbitri, ex calciatori e allenatori su determinate regole, mi ha impressionato la quasi unanimità dei calciatori, con grande sorpresa degli arbitri. Il distacco è evidente, la prospettiva è diversa, il calciatore capisce l’intenzionalità del gesto. L’esempio è il fallo di mano: il 95% di allenatori ed ex calciatori la pensavano alla stessa maniera. Io sono per interrompere le partite il meno possibile: lo spettacolo non è interrompere, però si deve imparare ad accettare anche l’errore. Quanto agli infortuni, si gioca troppo, ma la voce del calciatore non viene mai ascoltata”.

Dai 10 ai 41 anni al Milan da giocatore, dai 50 ai 55 da dirigente: la storia si è davvero interrotta?
“Non so, il legame è troppo forte e tale resterà per sempre: la storia non si può cancellare. Non credo che da dirigente avrei lavorato da un’altra parte. Non avrei iniziato altrove a fare il dirigente, 9 anni dopo avere smesso di giocare. Non stavo aspettando l’offerta, la vita andava avanti. C’era stato qualche abboccamento con Barbara Berlusconi e poi con Fassone e Mirabelli. Se fossero arrivate le giuste condizioni, avrei forse accettato e così è stato con Elliott. Io voglio solo dire grazie alla vita che mi ha dato questa opportunità e al Milan che per l’ennesima volta mi ha dato la chance di fare qualcosa che mi ha dato una soddisfazione personale, relazionale, che mi ha riempito il cuore. Provo affetto per quello che è stato costruito, per i ragazzi che abbiamo preso e plasmato, per i loro genitori. Ho ricordi indelebili con persone di alto livello morale: Leo, Zvone, Ricky, Virna, Angelo, Marina e Antonia, solo per citarne alcuni, anche gli altri sanno che rimarranno sempre nel mio cuore”.


Poi è arrivato il 5 giugno.
“E adesso leggo la rappresentazione di una nuova era, di un Berlusconi 2: un ripassino della storia italiana, politica e imprenditoriale degli ultimi 40 anni, forse farebbe bene a tutti. L’ho detto quel giorno stesso, prima del mio congedo: oggi comandate voi, ma per favore rispettate la storia del Milan”.




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Come sempre, su queste pagine gran parte degli altarini erano già evidenti. Molto interessanti le parti relative allo stadio (55mila posti a maggioranza corporate :facepalm: ) e quella sulle ambizioni del club (eliminazione al girone e un turno di EL). Detto e ridetto su queste pagine, non gliene frega nulla del risultato sportivo, importante è solo il piazzamento in europa, basta anche l'EL.
 

Giek

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Ecco tutta l'intervista completa di Paolo Maldini a Repubblica, che vuota il sacco e sgancia bombe su Cardinale, Furlani Scaroni e gli algoritmi. Consigli a Ibra sul futuro. E la cessione di Tonali...

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ECCO TUTTA L'INTERVISTA DAL SITO DI REPUBBLICA. DI SEGUITO GLI SCREEN DEL GIORNALE IN EDICOLA



Paolo Maldini, perché ha aspettato quasi 6 mesi per rompere il silenzio dopo il suo licenziamento e quello del ds Massara?
“Perché avrei parlato troppo di pancia. Ma ora è maturo il tempo per analizzare quanto è accaduto con quella serenità che la distanza temporale permette. Mi piace essere onesto e prendermi le mie responsabilità, ma vorrei che le cose venissero considerate nella loro effettività e valutate nella maniera giusta. Farei subito una premessa”.


Prego.
“Sarò per sempre grato a Leonardo, che mi ha chiamato nel 2018, al fondo Elliott, che mi ha fatto firmare il primo contratto e a Redbird che me lo ha rinnovato, anche se con qualche difficoltà. In questi 5 anni ho imparato tanto, ho avuto relazioni personali e professionali che mi porterò dietro per sempre e sono anche cresciuto in un ruolo completamente diverso, il che non era scontato: la regola è che spesso il grande calciatore non riesca a fare quel salto di qualità. Ci sono persone che sono di passaggio in istituzioni come il Milan, nel mondo dei club di calcio di profilo internazionale, e che non hanno un reale rispetto della sua identità e della sua storia. Non sono incaricate e non si muovono per dare una visione per le nuove generazioni di tifosi. Spesso sono manager che vengono a lavorare in un grande club di grande prestigio e popolarità anche per migliorare il proprio curriculum e poi andare da un’altra parte. Per contro, invece, ci sono persone che hanno a cuore tutte queste cose, molto più a lungo termine e molto più legate agli ideali che il club, nel corso della sua storia, ha insegnato a tanti, sul campo e fuori. Purtroppo, nel calcio professionistico moderno, la popolazione della prima tipologia di persone sta diventando sempre più numerosa. Io credo che bisognerebbe tenersi stretto chi è portatore di ideali e orienta il proprio lavoro per salvaguardarne valori e identità”.

Non si aspettava il divorzio?
“Se il Milan è stato venduto a 1,2 miliardi di euro e la proprietà vuole cambiare l’organigramma, ne ha il diritto. Anche in questo caso, però, le modalità sono importanti e tante cose non sono andate come sarebbe stato doveroso, per rispetto delle persone e dei loro ruoli. Ho dovuto discutere per trovare un accordo e per non rinunciare ai miei diritti, ma avevo detto subito all’ad Furlani che l’ultima cosa che avrei voluto era un contenzioso con il club: vi rendete conto, gli ho spiegato, che sarebbe la seconda causa di una leggenda del cub al gruppo proprietario del Milan in due anni, dopo quella (persa!) con Boban? Una cosa è certa: il mio amore per il Milan sarà sempre incondizionato. Da figlio di Cesare. Da ex capitano. Da papà di Christian e Daniel, che al Milan sono passati. E poi anche da dirigente: sono stati cinque anni fantastici”.


A giudicare dai cori per lei, nello spettacolo teatrale di Giacomo Poretti cui ha preso parte a Milano, il pubblico ha capito.
“Spesso si pensa che il pubblico non capisca e che si faccia condizionare dalla comunicazione, magari studiata a tavolino, ma per fortuna così non sembra. È inutile nascondere che tutti quelli che hanno avuto a che fare con la galassia Milan in questi anni siano stati indirizzati nel veicolare sui media compiacenti una certa storia: chi dice il contrario sa di mentire a se stesso. Io ho pensato agli interessi esclusivi della squadra (e perciò del club, dal momento che la squadra rappresenta l’asset principale di una società sportiva), credendo che i risultati avrebbero avuto la meglio su una narrazione proposta senza curarsi del fatto che corrisponda o meno alla realtà. E la verità è che spesso ex calciatori come me, Boban e Leonardo, hanno sempre esercitato il proprio ruolo in piena autonomia di giudizio, ma senza mai travalicare i rispettivi ambiti di competenza. Aggiungo che questa indipendenza deve sempre contraddistinguere noi stessi, che quasi certamente non potremmo farne a meno, anche quando assumiamo ruoli o responsabilità manageriali. Si chiama, se non sbaglio, professionalità”.

Secondo Gerry Cardinale, l’azionista di controllo del Milan, lei era un individualista, allergico al lavoro di gruppo.
“Appunto, direi che confonde l’individualismo con la volontà di essere responsabile nel prendere le decisioni previste dal mio ruolo e magari nel pagarne le conseguenze, trascurando peraltro le prerogative che il contratto, che lui ha firmato, mi attribuiva. Io non mi sono mai sottratto al confronto: il confronto quotidiano stimola l’ingegno e apre a visioni diverse. Siamo spesso circondati da persone che ci danno sempre ragione: avere amici o colleghi che sfidano le tue certezze è una benedizione. In questi cinque anni ho capito che la capacità di assumere e gestire responsabilità personali, cioè individuali, non è così comune. Chi ha giocato a calcio ad alto livello ha meno paura di fallire, essendo stato giudicato per tutta la vita ogni tre giorni. Questo rappresenta un grande vantaggio e ha un grande impatto su un’azienda, ma può non essere gradito a chi non è aperto al confronto e non condivide neppure l’idea anche di rispondere dei propri errori, che per me è normalissima, sana, dialettica di ogni gruppo dirigente che si rispetti. Io ho sempre voglia di imparare: alcune cose del passato, ad esempio alcune critiche al Milan, oggi non le farei più, perché ho capito che cosa vuol dire gestire l’ area tecnica di una società ambiziosa, a livello globale, nello sport professionistico”.


Da che cosa erano dettate quelle critiche?
“Più dal sentimento che dalla ragione e sinceramente dalla poca esperienza: certe dinamiche, fino a quando non sei dall’altra parte, non puoi capirle. Il primo anno l’ho passato ad ascoltare e imparare, era apprendistato. Nei primi 6 mesi mi sentivo inutile, ma Leonardo mi diceva: stai solo imparando. Non è facile avere come interlocutore un fondo americano o un Ceo sudafricano: la mia visione del calcio, rispetto al 2018, è stata stravolta. Ma lo ripeto: non ho mai avuto, né avrò mai paura del confronto”.


E sul mercato?
“È stato veicolato il concetto che io e Massara siamo stati allontanati perché non condividevamo obiettivi e strategie di mercato: niente di più lontano dal vero. Anche da un punto di vista formale. Infatti, se parliamo delle condizioni di ingaggio, non ho mai avuto potere di firma neanche per i prestiti. Ogni giocatore che è stato preso è stato scelto da me, Boban e Massara, ogni scelta condivisa con l’ad e con la proprietà. Ma la firma era sempre di qualcun altro che avallava l’operazione. Più o meno sono 35-40 i giocatori del nostro ciclo e io non ho firmato i contratti per nessuno di loro, neanche per quelli in prestito, perché non avevo il potere di firma, non l’ho mai voluto. Anzi, tante soluzioni proposte non sono state approvate: mi è stato detto di no tantissime volte. Capita. A volte mi dicevano semplicemente di no, a volte veniva ridimensionato il budget. Nelle riunioni sentivo spesso: “Io non capisco niente di calcio”, ma alla fine c’era sempre un però. Non sono nato ieri, ho abbastanza esperienza per capire che sia normale una certa differenza di vedute, a volte anche un’interferenza da parte della proprietà nelle scelte tecniche dell’area sportiva, che poi, nel caso specifico, è il core business dell’azienda, tale da spostare gli equilibri finanziari. Tuttavia essere accusato di non avere voluto condividere non lo trovo affatto giusto. E poi io penso che le proprietà, specialmente se straniere, non abbiano ancora raggiunto una piena consapevolezza di quali siano la mole e il tipo di lavoro svolti all’interno del club dalle varie aree, in particolare da quella sportiva, soprattutto nel mercato italiano. Preciso che tutti i giocatori che sono arrivati sono stati approvati da me: non mi è stato mai imposto niente e nessuno, anche perché me ne sarei andato il giorno dopo. Per lo stesso ingaggio di Zlatan, a suo tempo, erano servite parecchie riunioni”.

A proposito di Ibrahimovic, pensa che tornerà al Milan?
“Non lo so, non conosco i termini della questione, né l’eventuale ruolo, leggo che sarebbe indicato come consigliere personale di Cardinale. Quello che gli posso suggerire è di seguire il mio stesso percorso: all’inizio sarebbe logico osservare e imparare prima di agire”.


Paolo Maldini, perché ha aspettato quasi 6 mesi per rompere il silenzio dopo il suo licenziamento e quello del ds Massara?
“Perché avrei parlato troppo di pancia. Ma ora è maturo il tempo per analizzare quanto è accaduto con quella serenità che la distanza temporale permette. Mi piace essere onesto e prendermi le mie responsabilità, ma vorrei che le cose venissero considerate nella loro effettività e valutate nella maniera giusta. Farei subito una premessa”.

Prego.
“Sarò per sempre grato a Leonardo, che mi ha chiamato nel 2018, al fondo Elliott, che mi ha fatto firmare il primo contratto e a Redbird che me lo ha rinnovato, anche se con qualche difficoltà. In questi 5 anni ho imparato tanto, ho avuto relazioni personali e professionali che mi porterò dietro per sempre e sono anche cresciuto in un ruolo completamente diverso, il che non era scontato: la regola è che spesso il grande calciatore non riesca a fare quel salto di qualità. Ci sono persone che sono di passaggio in istituzioni come il Milan, nel mondo dei club di calcio di profilo internazionale, e che non hanno un reale rispetto della sua identità e della sua storia. Non sono incaricate e non si muovono per dare una visione per le nuove generazioni di tifosi. Spesso sono manager che vengono a lavorare in un grande club di grande prestigio e popolarità anche per migliorare il proprio curriculum e poi andare da un’altra parte. Per contro, invece, ci sono persone che hanno a cuore tutte queste cose, molto più a lungo termine e molto più legate agli ideali che il club, nel corso della sua storia, ha insegnato a tanti, sul campo e fuori. Purtroppo, nel calcio professionistico moderno, la popolazione della prima tipologia di persone sta diventando sempre più numerosa. Io credo che bisognerebbe tenersi stretto chi è portatore di ideali e orienta il proprio lavoro per salvaguardarne valori e identità”.


Non si aspettava il divorzio?
“Se il Milan è stato venduto a 1,2 miliardi di euro e la proprietà vuole cambiare l’organigramma, ne ha il diritto. Anche in questo caso, però, le modalità sono importanti e tante cose non sono andate come sarebbe stato doveroso, per rispetto delle persone e dei loro ruoli. Ho dovuto discutere per trovare un accordo e per non rinunciare ai miei diritti, ma avevo detto subito all’ad Furlani che l’ultima cosa che avrei voluto era un contenzioso con il club: vi rendete conto, gli ho spiegato, che sarebbe la seconda causa di una leggenda del cub al gruppo proprietario del Milan in due anni, dopo quella (persa!) con Boban? Una cosa è certa: il mio amore per il Milan sarà sempre incondizionato. Da figlio di Cesare. Da ex capitano. Da papà di Christian e Daniel, che al Milan sono passati. E poi anche da dirigente: sono stati cinque anni fantastici”.

A giudicare dai cori per lei, nello spettacolo teatrale di Giacomo Poretti cui ha preso parte a Milano, il pubblico ha capito.
“Spesso si pensa che il pubblico non capisca e che si faccia condizionare dalla comunicazione, magari studiata a tavolino, ma per fortuna così non sembra. È inutile nascondere che tutti quelli che hanno avuto a che fare con la galassia Milan in questi anni siano stati indirizzati nel veicolare sui media compiacenti una certa storia: chi dice il contrario sa di mentire a se stesso. Io ho pensato agli interessi esclusivi della squadra (e perciò del club, dal momento che la squadra rappresenta l’asset principale di una società sportiva), credendo che i risultati avrebbero avuto la meglio su una narrazione proposta senza curarsi del fatto che corrisponda o meno alla realtà. E la verità è che spesso ex calciatori come me, Boban e Leonardo, hanno sempre esercitato il proprio ruolo in piena autonomia di giudizio, ma senza mai travalicare i rispettivi ambiti di competenza. Aggiungo che questa indipendenza deve sempre contraddistinguere noi stessi, che quasi certamente non potremmo farne a meno, anche quando assumiamo ruoli o responsabilità manageriali. Si chiama, se non sbaglio, professionalità”.



Secondo Gerry Cardinale, l’azionista di controllo del Milan, lei era un individualista, allergico al lavoro di gruppo.
“Appunto, direi che confonde l’individualismo con la volontà di essere responsabile nel prendere le decisioni previste dal mio ruolo e magari nel pagarne le conseguenze, trascurando peraltro le prerogative che il contratto, che lui ha firmato, mi attribuiva. Io non mi sono mai sottratto al confronto: il confronto quotidiano stimola l’ingegno e apre a visioni diverse. Siamo spesso circondati da persone che ci danno sempre ragione: avere amici o colleghi che sfidano le tue certezze è una benedizione. In questi cinque anni ho capito che la capacità di assumere e gestire responsabilità personali, cioè individuali, non è così comune. Chi ha giocato a calcio ad alto livello ha meno paura di fallire, essendo stato giudicato per tutta la vita ogni tre giorni. Questo rappresenta un grande vantaggio e ha un grande impatto su un’azienda, ma può non essere gradito a chi non è aperto al confronto e non condivide neppure l’idea anche di rispondere dei propri errori, che per me è normalissima, sana, dialettica di ogni gruppo dirigente che si rispetti. Io ho sempre voglia di imparare: alcune cose del passato, ad esempio alcune critiche al Milan, oggi non le farei più, perché ho capito che cosa vuol dire gestire l’ area tecnica di una società ambiziosa, a livello globale, nello sport professionistico”.

Da che cosa erano dettate quelle critiche?
“Più dal sentimento che dalla ragione e sinceramente dalla poca esperienza: certe dinamiche, fino a quando non sei dall’altra parte, non puoi capirle. Il primo anno l’ho passato ad ascoltare e imparare, era apprendistato. Nei primi 6 mesi mi sentivo inutile, ma Leonardo mi diceva: stai solo imparando. Non è facile avere come interlocutore un fondo americano o un Ceo sudafricano: la mia visione del calcio, rispetto al 2018, è stata stravolta. Ma lo ripeto: non ho mai avuto, né avrò mai paura del confronto”.

E sul mercato?
“È stato veicolato il concetto che io e Massara siamo stati allontanati perché non condividevamo obiettivi e strategie di mercato: niente di più lontano dal vero. Anche da un punto di vista formale. Infatti, se parliamo delle condizioni di ingaggio, non ho mai avuto potere di firma neanche per i prestiti. Ogni giocatore che è stato preso è stato scelto da me, Boban e Massara, ogni scelta condivisa con l’ad e con la proprietà. Ma la firma era sempre di qualcun altro che avallava l’operazione. Più o meno sono 35-40 i giocatori del nostro ciclo e io non ho firmato i contratti per nessuno di loro, neanche per quelli in prestito, perché non avevo il potere di firma, non l’ho mai voluto. Anzi, tante soluzioni proposte non sono state approvate: mi è stato detto di no tantissime volte. Capita. A volte mi dicevano semplicemente di no, a volte veniva ridimensionato il budget. Nelle riunioni sentivo spesso: “Io non capisco niente di calcio”, ma alla fine c’era sempre un però. Non sono nato ieri, ho abbastanza esperienza per capire che sia normale una certa differenza di vedute, a volte anche un’interferenza da parte della proprietà nelle scelte tecniche dell’area sportiva, che poi, nel caso specifico, è il core business dell’azienda, tale da spostare gli equilibri finanziari. Tuttavia essere accusato di non avere voluto condividere non lo trovo affatto giusto. E poi io penso che le proprietà, specialmente se straniere, non abbiano ancora raggiunto una piena consapevolezza di quali siano la mole e il tipo di lavoro svolti all’interno del club dalle varie aree, in particolare da quella sportiva, soprattutto nel mercato italiano. Preciso che tutti i giocatori che sono arrivati sono stati approvati da me: non mi è stato mai imposto niente e nessuno, anche perché me ne sarei andato il giorno dopo. Per lo stesso ingaggio di Zlatan, a suo tempo, erano servite parecchie riunioni”.

A proposito di Ibrahimovic, pensa che tornerà al Milan?
“Non lo so, non conosco i termini della questione, né l’eventuale ruolo, leggo che sarebbe indicato come consigliere personale di Cardinale. Quello che gli posso suggerire è di seguire il mio stesso percorso: all’inizio sarebbe logico osservare e imparare prima di agire”.


Anche se la ferita sarà dolorosa, può tornare a quel 5 giugno fatidico?
“Gerry Cardinale mi ha chiamato per colazione e dopo un commento sull’addio al calcio giocato di Zlatan mi ha detto che voleva cambiare e che io e Ricky Massara eravamo licenziati. Gli ho chiesto perché e lui mi ha parlato di cattivi rapporti con Furlani. Allora io gli ho detto: ti ho mai chiamato per lamentarmi di Furlani? Mai. C’è stata anche una sua battuta sulla semifinale di Champions persa con l’Inter, ma diciamo che le motivazioni mi sono sembrate un tantino deboli. Le cosiddette assumptions, gli obiettivi sportivi ed economici di inizio stagione, erano state clamorosamente superate”.

Quali erano?
“Ipotizzando l’eliminazione dalla Champions, qualificarsi per la Champions successiva e passare un turno in Europa League”.

Il club dava per scontato che in Champions la squadra non avrebbe passato la fase a gironi?
“Erano previsioni molto conservative, che tra l’altro sono stata riconfermate quest’anno anche dopo la campagna acquisti importante di quest’estate. Ma nella scorsa stagione, a livello economico, la semifinale ha portato almeno 70 milioni di introiti in più, oltre all’indotto derivante da sponsorizzazioni e ticketing, settori in cui abbiamo battuto record su record. Non è un caso che poi l’ultimo bilancio porti il segno positivo. Quel bilancio è riferito alla stagione 2022-2023. Siamo andati ben oltre il risultato sportivo, era impossibile imputarmi di non aver centrato gli obiettivi”.

Cardinale eccepiva?
“Cardinale l’ho incontrato di sfuggita in occasione di qualche partita di Champions, ma nell’arco di un anno ho avuto solo una chiacchierata su come andasse la gestione sportiva. Mi ha scritto 4 messaggi per i vari passaggi del turno, senza neanche chiamarmi. La prima cosa che mi ha detto, quando ci siamo conosciuti, è stata che dovevamo fidarci l’uno dell’altro, ancora prima di conoscerci di più, perché non avevamo tempo. Io mi sono fidato e sinceramente come è andata è noto a tutti. Io credo che la decisione di licenziare me e Massara fosse stata presa molti mesi prima. E a posteriori mi vedo costretto a riconsiderare il rapporto con alcune persone, che lavoravano con me e che sicuramente, mi riesce difficile immaginare il contrario, erano già al corrente di quella decisione. D’altronde il contratto, di due anni con opzione di rinnovo, mi era stato rinnovato solo il 30 giugno 2022 alle 22. Credo che all’epoca sarebbe stato troppo impopolare mandarci via, perché avevamo appena vinto lo scudetto”.

Che cosa le disse la società?
“Cardinale voleva vincere la Champions. Io gli dissi che era necessario un piano triennale per pensare a quell’obiettivo e lui mi propose due anni più opzione di uno. In quel momento chiesi due anni: pensavo che ci sarebbe stato tempo, dopo, per discutere di piani. Se poi fosse stato contento, mi avrebbe proposto il rinnovo lui”.

È vero che a febbraio 2023 lei aveva presentato un piano triennale di sviluppo?
“Verissimo. In 3-4 mesi, da ottobre a febbraio, l’ho preparato con Massara e con un mio amico consulente. Erano 35 pagine: raccontavo i 4 anni trascorsi e gli obiettivi, secondo una strategia sostenibile economicamente, ma con la necessità di un salto di qualità”.

Risposte?
“Nessuna. Ho mandato il piano a Cardinale, a due suoi collaboratori molto stretti, con uno dei quali si tenevano call settimanali ogni lunedì alle 18, e all’ad Furlani. Non ho ricevuto alcuna risposta. Forse non abbiamo ascoltato il campanello d’allarme perché eravamo concentrati sulle tante cose che il mio ruolo e quello di Massara prevedono. Dopo avere acquistato circa 35 giocatori ci viene contestato l’ingaggio di De Ketelaere, che peraltro aveva 21 anni, un’età in cui non sempre l’adattamento è immediato. Chi ha giocato a calcio sa che non sempre si è strutturati a quell’età per sostenere un salto così importante come quello fatto da Charles: i ragazzi vanno aspettati, aiutati, coccolati e ripresi, continuamente. Chi pensa che il lavoro dell’area sportiva sia solamente quello di fare mercato sbaglia tutto: allenatori, calciatori e staff hanno bisogno di supporto continuo. Spesso si scommette solo sul talento senza sapere come svilupparlo, gli esempi più lampanti sono Chelsea e Manchester United: grandissimi investimenti sul mercato e gestione insufficiente portano a risultati molto scadenti. Non sempre il talento viene riconosciuto, quando si scommette su potenzialità di ragazzi giovani il rischio di insuccesso è molto alto. Dopo appena 3 mesi di lavoro, Boban e Massara ed io fummo chiamati a Londra da proprietà e Ceo e praticamente esautorati, delegittimati ad esercitare i nostri ruoli, perché i vari Leao, Bennacer e Theo non piacevano. Noi sapevamo che il Leao del Lille poteva diventare una stella, ma che gli sarebbe servito un percorso e la stessa cosa valeva per Theo, Ismael e per tutti quelli che sono arrivati successivamente. Ricordiamo sempre da dove siamo partiti”.


Vuole riassumere?
“Nel 2018-19 avevamo una squadra avanti con gli anni e poco performante, erano ormai sei anni che il Milan non si qualificava per la Champions League. Il valore complessivo della rosa era di circa 200 milioni e il monte ingaggi di 150. La ristrutturazione, con giocatori giovani, è stata fatta in 4 anni con una spesa al netto delle cessioni di 120 milioni, 30 a stagione e 15 per sessione. Il valore della rosa è passato a circa 500 milioni, il monte ingaggi è sceso il primo anno a 120 e poi a 100 per i tre successivi, anche se, come spiegavo nel piano strategico, il taglio degli stipendi aveva portato al mancato rinnovo di giocatori come Çalhanoglu e Kessié, con i quali avremmo avuto un centrocampo tra i più forti d’Europa. Alla fine della stagione scorsa contavamo tre partecipazioni di fila alla Champions, uno scudetto vinto dopo11 anni, una semifinale di Champions dopo 16 e un bilancio in positivo dopo 17 . Se si resta sempre sul filo, basta sbagliare una stagione per rovinare il lavoro fatto in quelle precedenti”.


Qual era il budget per il 2023-24?
“Nelle squadre di calcio in genere la previsione di budget va affrontata intorno a marzo, ma il mio settore, tra l’altro il più importante, era l’unico per il quale non se n’era ancora parlato. Più volte ho chiesto un incontro per parlare di numeri e strategie, dato che non si può aspettare giugno per programmare il mercato. Poi, 4 giorni prima del licenziamento, Furlani mi ha comunicato molto imbarazzato che il budget sarebbe stato molto basso. A prescindere da come è finita, io sono contento per il Milan e i suoi tifosi per almeno due cose: il budget di spesa sul mercato, dopo la nostra partenza, è finalmente raddoppiato, al netto cioè della cessione di Tonali, e il monte ingaggi è finalmente cresciuto, in linea con il piano che avevamo inviato. Il nostro documento strategico deve essere diventato improvvisamente fonte di ispirazione!”.


Avreste mai ceduto Tonali?
“Avremmo fatto tutto il possibile per non lasciarlo andare via, anche di fronte a un’offerta così importante. Non siamo mai stati totalmente contrari alla cessione di uno dei nostri calciatori importanti, ma non c’era neanche una reale necessità. Mi piace ricordare che spendemmo per acquistarlo una cifra pari a circa un quinto del valore di cessione di dominio pubblico e che anche in quel caso dovemmo discutere animatamente con Ceo e proprietà: nessuno di loro voleva comprarlo, neanche l’area scouting”.


Poi Tonali è incappato nel caso scommesse.
“Sono rimasto scioccato. Mi dispiace: non mi sono reso conto del suo disagio. Questo mi fa capire una volta di più che non si fa mai abbastanza per cercare di gestire e capire questi ragazzi. È una sconfitta anche per noi quello che è successo a Sandro”.


Colpa dei social?
“Ai giocatori dicevo spesso di distinguere la vita reale da quella dei social, anche quando si sentono attaccati e offesi da un mondo senza regole. Si deve aspirare a qualcosa di più radicato e profondo, anche se il “sentiment”, una parola che ho sentito spesso a Casa Milan e che mi fa sorridere, magari è un altro. Di sicuro, come abbiamo detto precedentemente, acquisti e cessioni sono solo una piccola parte del lavoro dell’ area sportiva”.


Qual è quello meno appariscente?
“Il lavoro con i giocatori. Con Leao, Theo Hernandez, Bennacer, Maignan, Kalulu, Thiaw, Tomori e molti altri, il vero lavoro è stato supportarli nel loro sviluppo. Se noi pensiamo che i giocatori non abbiano bisogno di supporto, sbagliamo. Sinceramente, quando oggi leggo che Theo e Leao sono il problema del Milan, dico che al mondo si può davvero raccontare tutto e il contrario di tutto: sono due campioni, ma la loro crescita non è ancora completata e necessitano di qualcuno che li aiuti. I giocatori hanno bisogno di tempo per maturare e di persone che parlino con loro: è anche il bello del nostro lavoro, è il frutto della nostra esperienza. Spesso ho fatto mente locale, pensando a me quando ero calciatore: allora non si usava, ma avrei avuto tantissimo bisogno di supporto. D’altronde, se l’equazione tra la spesa sul mercato e il risultato fosse corretta e infallibile, Psg, Chelsea e Manchester United avrebbero vinto tutto più volte”.


Nel Milan attuale manca una figura del genere: tutto ricade sulle spalle di Pioli.
“Innanzitutto Stefano andrebbe ringraziato sempre dai tifosi milanisti, il suo lavoro è stato fondamentale per la crescita dei giovani calciatori che sono arrivati al Milan, li ha fatti giocare e li ha aiutati a diventare quello che sono adesso, è stata una figura chiave delle nostre fortune. Vorrei ricordare però che l’allenatore è una tra le persone più sole del mondo del calcio. Dargli compiti che esulano dai suoi lo renderà sempre più solo, se non verrà supportato”.


Avrebbe voluto sostituire Pioli con Pirlo?
“Il ruolo di responsabile dell’area tecnica nel settore sportivo impone di avere incontri e confronti frequenti. Sono un momento di crescita generale, se avvengono con toni rispettosi, come è sempre successo. Ci stavamo già confrontando per la stagione successiva. Siamo stati noi a rinnovare il suo contratto fino al 2025, perché lo meritava. Se ci fosse stata, come negli anni passati, un’unità di intenti e visioni con gli obiettivi societari, non vedo perché l’avremmo dovuto cambiare”.


Il presidente del Milan, Paolo Scaroni, ha dichiarato che senza di lei adesso il gruppo di lavoro è unito.
“Mi dà fastidio come si raccontano le cose. Il Milan merita un presidente che faccia solo gli interessi del Milan, insieme a un gruppo dirigenziale che non lasci mai la squadra sola. La condivisione e il supporto sono principi da attuare nei momenti belli come in quelli brutti. In questi anni non ho mai percepito una chiara condivisione di che cosa voglia dire lavorare di squadra: non mi ha mai ha chiesto se ci fosse stato bisogno di due parole di incoraggiamento ai giocatori e al nostro gruppo di lavoro, in pubblico o in privato. Mai ho ricevuto supporto nei tanti momenti difficili. Anzi. In tribuna l’ho visto spesso andare via quando gli avversari pareggiavano o passavano in vantaggio, magari solo per non trovare traffico. Mentre me lo ricordo puntualissimo in prima fila, quando abbiamo vinto lo scudetto: per questo non so che cosa si sia voluto dire con l’espressione “gruppo unito senza” di me. Ma è evidente che io ho un concetto diverso di condivisione e di gruppo. Posso dire che la stessa cosa è avvenuta anche con i due Ceo Gazidis e Furlani”.


Che cosa pensa dei famosi algoritmi?
“La narrazione su questo tema mi ha fatto un pochino sorridere: non c’è bisogno di scomodare gli algoritmi per prendere Loftus-Cheek, Pulisic e Chukwueze, basta utilizzare per il mercato i soldi che una società che finalmente fattura 400 milioni merita. Non si possono paragonare le quattro annate precedenti con l’ultima, abbiamo combattuto sul mercato con armi diverse, ma mi fa piacere che adesso non ci sia più il freno a mano tirato. Detto ciò, abbiamo sempre utilizzato l’intelligenza artificiale, strumento ormai indispensabile in qualunque attività, senza tuttavia pensare ragionevolmente che una società sportiva possa essere gestita da un algoritmo. Le molteplici variabili del calcio non lo consentirebbero. È forse per questo che ancora questo sport appassiona milioni di persone”.


Lei ha detto di avere imparato ad apprezzare la cosiddetta sostenibilità.
“Sì, è stata una sfida. La sostenibilità mi ha conquistato: avevamo poche possibilità di riuscita, ma è stato molto sfidante tagliare del 30% il monte ingaggi, rinnovare la rosa e aumentare il valore dei calciatori arrivando allo scudetto e a 3 anni di Champions, dopo 7 senza. L’ho fatto con Boban e Massara, attraverso condivisione di principi, di conoscenza ed esperienza, e utilizzando anche strumenti, legati alle statistiche, che io e Zvone conoscevamo meno rispetto a Ricky. Pensiamo che siano parte di una decisione finale che deve essere presa da persone che abbiano una visione completa”.


Il nuovo stadio è davvero così centrale per il salto di qualità?
“Lo stadio è stato un motivo di scontro. Io non potevo mettere la faccia su un progetto da 55-60 mila posti, quasi tutti corporate e con pochissimi biglietti popolari. Non potevo lasciare un’eredità così alle nuove generazioni milaniste. Non potevo supportare questo piano. Ho lottato per fare capire che serviva uno stadio più grande e con parte di posti accessibili a tutti. La media di oltre 70 mila spettatori a San Siro, la scorsa stagione, dimostra che avevo ragione”.


Qual è la sua idea?
“Un nuovo San Siro moderno e accogliente è fondamentale. L’idea che lo stadio nuovo dia 80 milioni in più da investire sul mercato è da rivalutare, come dimostrano i numeri della stagione scorsa. Quando raccontavo le potenzialità e l’unicità che ha il Milan rispetto ad altri club, probabilmente suscitavo ilarità. Ma io so che è così. Se ci fosse la possibilità, e in questo il sindaco è assolutamente responsabile, lo stadio lo farei a San Siro, magari ancora con l’Inter. Dopo 5 anni non solo non c’è il primo mattone, ma non sappiamo neanche dove si farà lo stadio: non mi sembra un gran successo. Quella del nuovo San Siro sarebbe anche una grande occasione per la rivalutazione dell’area: è verde destinato ai cittadini di una zona di Milano che rischia l’abbandono. Milano, negli ultimi 10 anni, è ridiventata trainante in Europa perché abbiamo superato vecchie barriere mentali. Dobbiamo avere paura del degrado, non del futuro. L’attuale San Siro è iconico, ma rendiamoci conto che sono stati i grandi campioni che ci hanno giocato a renderlo tale. È ancora fantastico dal punto di vista sportivo, ma serve una nuova storia: il passato è passato, Milano ha sempre guardato al futuro”.


Nel passato il Milan aveva molti più giocatori italiani.
“I ragazzi italiani devono avere più coraggio, devono darsi una mossa. Se occorre, devono andare anche a giocare di più all’estero, dove i giovani vengono buttati nella mischia. Li fanno giocare e loro devono dimostrare di essere all’altezza. In Italia li teniamo spesso nella bambagia”.


Conferma di avere pensato a Messi?
“Confermo che ci abbiamo pensato. Dopo il Barcellona era libero e il club ha fatto fare una proiezione sull’indotto del suo ingaggio. Era un’operazione fattibile, ci avrebbe aiutato il decreto crescita. Ne valeva la pena. Ma quando ho sentito Leonardo, ci ha detto che l’affare col Psg era già molto avanti ed è rimasta solo un’idea”.


Paolo Maldini dirigente in Arabia Saudita: è solo una suggestione?
“Per il mio lavoro le alternative al Milan sono molto limitate. Non potrei mai andare in un’altra squadra italiana, eventualmente valuterei solo l’offerta di una squadra straniera di alto livello. A me piace vincere e costruire. L’Arabia potrebbe essere una opzione stimolante, chissà”.


Resterà nel board Uefa di ex campioni e allenatori per le riforme tecniche del calcio?
“Sì. L’idea di Boban è azzeccata. Continuerò. Nel confronto tra arbitri, capi arbitri, ex calciatori e allenatori su determinate regole, mi ha impressionato la quasi unanimità dei calciatori, con grande sorpresa degli arbitri. Il distacco è evidente, la prospettiva è diversa, il calciatore capisce l’intenzionalità del gesto. L’esempio è il fallo di mano: il 95% di allenatori ed ex calciatori la pensavano alla stessa maniera. Io sono per interrompere le partite il meno possibile: lo spettacolo non è interrompere, però si deve imparare ad accettare anche l’errore. Quanto agli infortuni, si gioca troppo, ma la voce del calciatore non viene mai ascoltata”.

Dai 10 ai 41 anni al Milan da giocatore, dai 50 ai 55 da dirigente: la storia si è davvero interrotta?
“Non so, il legame è troppo forte e tale resterà per sempre: la storia non si può cancellare. Non credo che da dirigente avrei lavorato da un’altra parte. Non avrei iniziato altrove a fare il dirigente, 9 anni dopo avere smesso di giocare. Non stavo aspettando l’offerta, la vita andava avanti. C’era stato qualche abboccamento con Barbara Berlusconi e poi con Fassone e Mirabelli. Se fossero arrivate le giuste condizioni, avrei forse accettato e così è stato con Elliott. Io voglio solo dire grazie alla vita che mi ha dato questa opportunità e al Milan che per l’ennesima volta mi ha dato la chance di fare qualcosa che mi ha dato una soddisfazione personale, relazionale, che mi ha riempito il cuore. Provo affetto per quello che è stato costruito, per i ragazzi che abbiamo preso e plasmato, per i loro genitori. Ho ricordi indelebili con persone di alto livello morale: Leo, Zvone, Ricky, Virna, Angelo, Marina e Antonia, solo per citarne alcuni, anche gli altri sanno che rimarranno sempre nel mio cuore”.


Poi è arrivato il 5 giugno.
“E adesso leggo la rappresentazione di una nuova era, di un Berlusconi 2: un ripassino della storia italiana, politica e imprenditoriale degli ultimi 40 anni, forse farebbe bene a tutti. L’ho detto quel giorno stesso, prima del mio congedo: oggi comandate voi, ma per favore rispettate la storia del Milan”.




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Condivido una buona parte di quello detto da Maldini.
Evidenzio un paio di punti.
L’area scouting di Moncada che non voleva Tonali, Leao, Theo e Bennacer. Brr. Ma questo Moncada chi caxxo è? Che caxxo fa? Perché gode di questa grande reputazione? Chi ha portato al Milan? Un montato da Football Manager.
Altro punto: il budget che magicamente raddoppia dopo il licenziamento di Maldini. Qui sul forum avevamo ampiamente detto che già dopo lo Scudetto avrebbero voluto mandare via la dirigenza ma la vittoria ha scombussolato i piani. In pratica, per questi furfanti lo Scudetto è stato un fastidio.
Non infierisco su Furlani e Stadioni. Furlani è il classico montato Bocconiano beota e Scaroni uno con un pelo sullo stomaco che nemmeno ci immaginiamo. Basti pensare ai ruoli che ha rivestito in società come ENI.
Interessante anche la stoccata ai tifosi che vedono in Leao e Theo il problema del Milan. Roba da quarta dimensione, roba per gente che non capisce di calcio.


Su altri punti invece non concordo con Maldini.
La possibilità di condividere il nuovo stadio ancora con l’Inter. Preistoria. Inaccettabile per un team come il Milan.
Lodi a Leonardo. Mai. Un uomo melma. Un farabutto, arrogante e spocchioso. E incapace.
Il ringraziamento a Pioli!! Ma grazie di che?! Un cancro per il Milan. Un inetto e miracolato.
CDK. Non c’entra nulla la giovane età. Anche un ubriaco avrebbe capito subito che non è da Milan. Lentissimo e con tecnica appena sopra la media. Flop annunciato.

Al netto di tutto, non vedo come potrei preferire dei babbi che non hanno a cuore il Milan e i risultati sportivi come Scaroni, Furlani, Gazidis e Moncada a uno come Maldini, che, pur con i suoi mille difetti, ha dimostrato di avere l’ambizione di riportare il Milan ai fasti che merita.
 
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Tutto giusto, ma semplicemente il discorso era che se maldini ha rilasciato ora questa intervista è perchè ovviamente non ritiene questa squadra all'altezza dell'importanza del club che rappresenta. Per intenderci, non l'avrebbe rilasciata dopo milan - psg, seppur la società era la stessa, la visione americana era la stessa, la versione del licenziamento sarebbe stata la stessa, ecc...
Rilascia l'intervista adesso perchè giustamente dalla sua ottica di dirigente bocciato da questa società, vuole togliersi qualche sassolino a fronte del finora scarso risultato del lavoro della società che lo ha bocciato. Un lavoro ad oggi insufficiente.
E giustamente Maldini questa cosa la vuol far capire bene, perchè anche lui come un qualsiasi tifoso, non ci sta a far passare tutto in cavalleria sui giornali con questa moltiplicazione di tanti piccoli pellegatti e suma avvenuta nell'ultimo anno che ti mostrano che se nel milan c'è qualcosa che non va, il colpevole non è Pioli, non è la società, non sono i giocatori... non esiste alcun colpevole.

poi il discorso che fai tu è giusto, importante, decisivo, ma è appunto un altro discorso che condivido.
Si ma bisogna capire cosa ci stia dicendo maldini tra le righe :che siamo in mano a mascalzoni?
Che con questo modo di gestire il club vinceremo mai?
Che i dirigenti sono incapaci?
Che il modello americano non funziona?
Che non smiliardano?
Che la sua presenza era scomoda?
 

rossonerosud

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Il re è nudo. Nudissimo. Maldini ha detto tutto ciò che tanto di noi hanno sempre sostenuto qui dentro. E comunque sono d'accordo con chi diceva che una stagione disatrosa potrebbe risultare palingenetica, mentre un quarto posto acciuffato per i capelli finirebbe per allungare l'agonia. Non riesco a tifare contro ma se il disastro sfociasse in un cambiamento definitivo di proprietà be'...
 
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L'intervista va interpretata bene perchè si presta a molteplici chiavi di lettura : se lo sfogo di paolo è dettato solo da una diversità di vedute circa il modo di gestire il club e di fare sport c'è poco da fare.
Comanda chi mette i soldi e piaccia o non piaccia maldini era un dipendente.
Se maldini vede il milan col cuore e ha un'idea di fare calcio che si scontra con un'idea più 'americana' del tutto c'è anche poco da sindacare e da storcere il naso.

Esattamente cosa fa scandalo in questa intervista?
Che la comunicazione è plagiata? Capirai, quale club non indirizza la comunicazione?
Che il club ha trattato male maldini non rispettando la sua storia? Non mi sorprende.
Che maldini e massara sono stati esonerati? Può essere giusto o sbagliato ma è legittimo farlo.


Io credo quindi la nostra analisi debba andare più o fondo.
Dobbiamo capire chi sono questi signori e cosa vogliono da noi e dal milan.
Dobbiamo capire i loro piani, le loro strategie, le loro ambizioni.

Ah, e per favore iniziamo a svuotare lo stadio se il prodotto non piace perchè altrimenti siamo anche noi complici di elliott.
Chi sta trasformando il milan in una americanata è chi lo finanzia quindi il tifoso che canta dallo stadio pioli is on fire è il primo colpevole.
Prendo spunto da questa analisi condivisibilissima :)

Lo sport per gli Americani é molto diverso da come lo si interpreta nel resto del mondo.

Per chi segue gli sport Americani, avrà sicuramente notato un pattern specifico dopo una cessione societaria. Il nuovo proprietario tende ad arrivare, a rassicurare tutti ed a lasciare le cose come sono per il primo anno. Per poi cercare di cambiare tutta la gestione.

Ishbia, nuovo proprietario della franchigia NBA dei Phoenix Suns da Febbraio 23 ha fatto a suo modo una piccola rivoluzione, dicendo: "Signori, i soldi ed il sederino li metto io. Se permettete vorrei poter andare a fondo con scelte mie e non con quelle fatte altri". I Suns sono stati per anni una delle franchigie più fallimentari della NBA, da 3 anni sono in netta ascesa e si sono anche giocati una finale per la seconda volta nella loro storia. Nell'ultima stagione sono stati fatti fuori al secondo turno playoff dalla squadra che andarà poi a vincere il titolo (tra l'altro gli unici veramente a metterli in difficoltà). Ha fatto fuori l'allenatore ed il giocatore che avevano stravolto una franchigia fallita. Direi che questo riassume un po' l'andazzo degli sport Americani, ma di esempi c'é ne sono tanti eh.

Tendenzialmente i soldi li mettono loro, e sono anche d'accordo che certe scelte debbano farle loro.

Con questo voglio solo confermare quello che dice Paolo, indipendentemente dai risultati o dal progetto sportivo, sarebbe stato fatto fuori. Noné stato fatto fuori per non aver vinto uno scudetto o un mercato da 30M deludenti o scelte non condivise con la società. Era scontato. Non so quanto bisogna andare a sindacare sul fine ultimo di questi, che é chiaramente fare soldi.

Diciamo che avrei dovuto immaginarmelo subito che sarebbe finita anche da noi cosi, ma mi sono fatto fregare dalla sua intervista post cessione, in cui dichiarava che in Europa non si puo' agire come in America, e che bisogna rispettare la cultura e la tradizione.

Se tanto mi da tanto, questo é l'ultimo anno di Pioli.
 
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