Giudice:"Milan, un disastro organizzativo".

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Alessandro Giudice (cantastorie di Redbird NDR) dal CorSport in edicola:"II l fallimento del Milan è organizzativo prima ancora che sportivo e può condizionare il futuro del club. Tre anni di gestione RedBird bastano a tracciare un primo bilancio. Alcuni, tra cui chi scrive, si aspettavano un’evoluzione del lavoro svolto da Elliott ma il Milan sembra tornato indietro. Dopo averlo salvato dal default di Yonghong Li, il team di Furlani aveva riequilibrato conti dissestati e portato i costi a livelli sostenibili, per giunta nel periodo falcidiato dal Covid. A corredo di una ristrutturazione aziendale esemplare, la competitività non ne uscì mortifi - cata. Anzi, il Milan fu riportato in Champions dopo otto anni e poi allo scudetto: esiti insperati nella decadenza del basso impero berlusconiano con la surreale parentesi cinese. La risalita non fu un percorso lineare ma segnato da battute d’arresto, scelte infelici come Giampaolo o azzeccate come Pioli, acquisti provvidenziali come Ibra. Uno stop-and-go tipico della gestione aziendale, soprattutto in ecosistemi frenetici come il calcio, ma il percorso fu assai virtuoso. Da RedBird, investitore con esperienza di asset sportivi, ci si aspettava un salto quantico, una gestione più sofi sticata sul piano sportivo oltre che del branding. Elliott aveva riorganizzato un club disastrato, ricostruendo dalle macerie, ma con una visione da investitore fi nanziario. Gazidis (e Furlani dietro le quinte) lo fecero applicando un approccio innovativo per il calcio italiano, con scelte razionali anziché istintive. Il Milan faceva vanto della sua diversità: decisioni condivise, anche sul mercato, discusse da un gruppo di lavoro ampio in cui si confrontavano l’anima fi nanziaria e quella calcistica, rappresentata da Maldini e Boban, portatori di un punto di vista diverso dal rigore aziendale. La sintesi sembrò funzionare, fi nché le confl ittualità portarono a separazioni traumatiche. Da RedBird, che a Furlani ha consegnato il ruolo di CEO in continuità con Elliott, ci si aspettava l’evoluzione verso modelli gestionali da Premier dove le decisioni sono condivise e le organizzazioni molto strutturate. Il Milan sembrava abbandonare i personalismi della Serie A per avvicinarsi alle best practices dell’industria. Si pensi che il Real ha 3.600 dipendenti e il CEO Sánchez uno stile riservato ma una presa fortissima sulla struttura operativa, lasciando a Perez le luci della ribalta. Il Liverpool (che RedBird conosce, essendovi coinvestitore con Fenway) ha una struttura robusta e modelli decisionali strutturati. Nel Milan, tutto sembra replicato in scala troppo ridotta, con l’area sportiva poco presidiata rispetto alle altre. Anzi, con l’uscita di Maldini-Massara (mai rimpiazzati, non tanto nelle scelte di mercato, quanto nella supervisione quotidiana della squadra) il gruppo di lavoro è diventato gruppetto, o triunvirato con job descriptions vaghe, senza nemmeno la diversità (magari scomoda, sgradevole, ma talvolta utile) del confronto da piani opposti di cultura aziendale. Senza confronto si vive meglio ma si rischia di scivolare nell’autoreferenzialità, perciò la diversità è talvolta ricchezza. Il Milan l’ha persa e anche l’uso dei dati (al di là delle sciocche ironie sugli algoritmi) sembra meno sistematico rispetto ai top club. Ad aggravare il tutto, manca una comunicazione empatica su politiche societarie, scelte, obiettivi, a favore di un approccio ermetico da “lasciateci lavorare” che può anche premiare se i risultati arrivano ma diventa un boomerang nel caso opposto. Ora, azzeccando allenatore e un ds all’antica con ampi spazi di autonomia, il Milan potrebbe anche vincere il titolo rilanciando una rosa con individualità di alto livello. I tifosi se lo augurano, ci mancherebbe. Ma il paradosso è che sarebbe una retromarcia dal percorso manageriale che il progetto prometteva. Intanto, dovranno preoccuparsi di spegnere l’incendio: servono scelte forti da proprietà e dirigenza. Occorre riconquistare i tifosi, defi niti «partner» da Cardinale ma raramente trattati come tali, senza i quali un’azienda di intrattenimento perde valore. Servono quindi scelte non populiste ma popolari, che non sarà facile armonizzare con la cultura aziendale del Milan attuale.

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Il milan è ingovernabile.
Faccio un parallelismo : il milan oggi è come un comune commissariato.

Non ci sono figure tecniche perchè non c'è una programmazione spotiva.
 
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Alessandro Giudice (cantastorie di Redbird NDR) dal CorSport in edicola:"II l fallimento del Milan è organizzativo prima ancora che sportivo e può condizionare il futuro del club. Tre anni di gestione RedBird bastano a tracciare un primo bilancio. Alcuni, tra cui chi scrive, si aspettavano un’evoluzione del lavoro svolto da Elliott ma il Milan sembra tornato indietro. Dopo averlo salvato dal default di Yonghong Li, il team di Furlani aveva riequilibrato conti dissestati e portato i costi a livelli sostenibili, per giunta nel periodo falcidiato dal Covid. A corredo di una ristrutturazione aziendale esemplare, la competitività non ne uscì mortifi - cata. Anzi, il Milan fu riportato in Champions dopo otto anni e poi allo scudetto: esiti insperati nella decadenza del basso impero berlusconiano con la surreale parentesi cinese. La risalita non fu un percorso lineare ma segnato da battute d’arresto, scelte infelici come Giampaolo o azzeccate come Pioli, acquisti provvidenziali come Ibra. Uno stop-and-go tipico della gestione aziendale, soprattutto in ecosistemi frenetici come il calcio, ma il percorso fu assai virtuoso. Da RedBird, investitore con esperienza di asset sportivi, ci si aspettava un salto quantico, una gestione più sofi sticata sul piano sportivo oltre che del branding. Elliott aveva riorganizzato un club disastrato, ricostruendo dalle macerie, ma con una visione da investitore fi nanziario. Gazidis (e Furlani dietro le quinte) lo fecero applicando un approccio innovativo per il calcio italiano, con scelte razionali anziché istintive. Il Milan faceva vanto della sua diversità: decisioni condivise, anche sul mercato, discusse da un gruppo di lavoro ampio in cui si confrontavano l’anima fi nanziaria e quella calcistica, rappresentata da Maldini e Boban, portatori di un punto di vista diverso dal rigore aziendale. La sintesi sembrò funzionare, fi nché le confl ittualità portarono a separazioni traumatiche. Da RedBird, che a Furlani ha consegnato il ruolo di CEO in continuità con Elliott, ci si aspettava l’evoluzione verso modelli gestionali da Premier dove le decisioni sono condivise e le organizzazioni molto strutturate. Il Milan sembrava abbandonare i personalismi della Serie A per avvicinarsi alle best practices dell’industria. Si pensi che il Real ha 3.600 dipendenti e il CEO Sánchez uno stile riservato ma una presa fortissima sulla struttura operativa, lasciando a Perez le luci della ribalta. Il Liverpool (che RedBird conosce, essendovi coinvestitore con Fenway) ha una struttura robusta e modelli decisionali strutturati. Nel Milan, tutto sembra replicato in scala troppo ridotta, con l’area sportiva poco presidiata rispetto alle altre. Anzi, con l’uscita di Maldini-Massara (mai rimpiazzati, non tanto nelle scelte di mercato, quanto nella supervisione quotidiana della squadra) il gruppo di lavoro è diventato gruppetto, o triunvirato con job descriptions vaghe, senza nemmeno la diversità (magari scomoda, sgradevole, ma talvolta utile) del confronto da piani opposti di cultura aziendale. Senza confronto si vive meglio ma si rischia di scivolare nell’autoreferenzialità, perciò la diversità è talvolta ricchezza. Il Milan l’ha persa e anche l’uso dei dati (al di là delle sciocche ironie sugli algoritmi) sembra meno sistematico rispetto ai top club. Ad aggravare il tutto, manca una comunicazione empatica su politiche societarie, scelte, obiettivi, a favore di un approccio ermetico da “lasciateci lavorare” che può anche premiare se i risultati arrivano ma diventa un boomerang nel caso opposto. Ora, azzeccando allenatore e un ds all’antica con ampi spazi di autonomia, il Milan potrebbe anche vincere il titolo rilanciando una rosa con individualità di alto livello. I tifosi se lo augurano, ci mancherebbe. Ma il paradosso è che sarebbe una retromarcia dal percorso manageriale che il progetto prometteva. Intanto, dovranno preoccuparsi di spegnere l’incendio: servono scelte forti da proprietà e dirigenza. Occorre riconquistare i tifosi, defi niti «partner» da Cardinale ma raramente trattati come tali, senza i quali un’azienda di intrattenimento perde valore. Servono quindi scelte non populiste ma popolari, che non sarà facile armonizzare con la cultura aziendale del Milan attuale.

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Si certo, il DS a fine maggio e grandi acquisti. Ormai solo chi ha il prosciutto davanti agli occhi non può vedere la realtà.
 

gabri65

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Alessandro Giudice (cantastorie di Redbird NDR) dal CorSport in edicola:"II l fallimento del Milan è organizzativo prima ancora che sportivo e può condizionare il futuro del club. Tre anni di gestione RedBird bastano a tracciare un primo bilancio. Alcuni, tra cui chi scrive, si aspettavano un’evoluzione del lavoro svolto da Elliott ma il Milan sembra tornato indietro. Dopo averlo salvato dal default di Yonghong Li, il team di Furlani aveva riequilibrato conti dissestati e portato i costi a livelli sostenibili, per giunta nel periodo falcidiato dal Covid. A corredo di una ristrutturazione aziendale esemplare, la competitività non ne uscì mortifi - cata. Anzi, il Milan fu riportato in Champions dopo otto anni e poi allo scudetto: esiti insperati nella decadenza del basso impero berlusconiano con la surreale parentesi cinese. La risalita non fu un percorso lineare ma segnato da battute d’arresto, scelte infelici come Giampaolo o azzeccate come Pioli, acquisti provvidenziali come Ibra. Uno stop-and-go tipico della gestione aziendale, soprattutto in ecosistemi frenetici come il calcio, ma il percorso fu assai virtuoso. Da RedBird, investitore con esperienza di asset sportivi, ci si aspettava un salto quantico, una gestione più sofi sticata sul piano sportivo oltre che del branding. Elliott aveva riorganizzato un club disastrato, ricostruendo dalle macerie, ma con una visione da investitore fi nanziario. Gazidis (e Furlani dietro le quinte) lo fecero applicando un approccio innovativo per il calcio italiano, con scelte razionali anziché istintive. Il Milan faceva vanto della sua diversità: decisioni condivise, anche sul mercato, discusse da un gruppo di lavoro ampio in cui si confrontavano l’anima fi nanziaria e quella calcistica, rappresentata da Maldini e Boban, portatori di un punto di vista diverso dal rigore aziendale. La sintesi sembrò funzionare, fi nché le confl ittualità portarono a separazioni traumatiche. Da RedBird, che a Furlani ha consegnato il ruolo di CEO in continuità con Elliott, ci si aspettava l’evoluzione verso modelli gestionali da Premier dove le decisioni sono condivise e le organizzazioni molto strutturate. Il Milan sembrava abbandonare i personalismi della Serie A per avvicinarsi alle best practices dell’industria. Si pensi che il Real ha 3.600 dipendenti e il CEO Sánchez uno stile riservato ma una presa fortissima sulla struttura operativa, lasciando a Perez le luci della ribalta. Il Liverpool (che RedBird conosce, essendovi coinvestitore con Fenway) ha una struttura robusta e modelli decisionali strutturati. Nel Milan, tutto sembra replicato in scala troppo ridotta, con l’area sportiva poco presidiata rispetto alle altre. Anzi, con l’uscita di Maldini-Massara (mai rimpiazzati, non tanto nelle scelte di mercato, quanto nella supervisione quotidiana della squadra) il gruppo di lavoro è diventato gruppetto, o triunvirato con job descriptions vaghe, senza nemmeno la diversità (magari scomoda, sgradevole, ma talvolta utile) del confronto da piani opposti di cultura aziendale. Senza confronto si vive meglio ma si rischia di scivolare nell’autoreferenzialità, perciò la diversità è talvolta ricchezza. Il Milan l’ha persa e anche l’uso dei dati (al di là delle sciocche ironie sugli algoritmi) sembra meno sistematico rispetto ai top club. Ad aggravare il tutto, manca una comunicazione empatica su politiche societarie, scelte, obiettivi, a favore di un approccio ermetico da “lasciateci lavorare” che può anche premiare se i risultati arrivano ma diventa un boomerang nel caso opposto. Ora, azzeccando allenatore e un ds all’antica con ampi spazi di autonomia, il Milan potrebbe anche vincere il titolo rilanciando una rosa con individualità di alto livello. I tifosi se lo augurano, ci mancherebbe. Ma il paradosso è che sarebbe una retromarcia dal percorso manageriale che il progetto prometteva. Intanto, dovranno preoccuparsi di spegnere l’incendio: servono scelte forti da proprietà e dirigenza. Occorre riconquistare i tifosi, defi niti «partner» da Cardinale ma raramente trattati come tali, senza i quali un’azienda di intrattenimento perde valore. Servono quindi scelte non populiste ma popolari, che non sarà facile armonizzare con la cultura aziendale del Milan attuale.

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Ma cosa critichi, stiamo messi benissimo, con una dirigenza che fa il lavoro oscuro (cit. Perno) e tiene in salute il club.

Guarda l'inda, piuttosto, che stanno per fallire. Ah, ecco, è appena arrivato il telex ANSA, sono falliti ufficialmente giusto 10 minuti fa.
 
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Sì sì certo, come no, tutto merito del team di FurlAno
 

RSMilan

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Questo 3 anni fa prevedeva scenari catrastofici per l'Inter e preannunicava scenari trionfali per noi. Adesso si è rimanfiato tutto. Magari è qualche utente del forum 😂😂😂
 

Lineker10

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Alessandro Giudice (cantastorie di Redbird NDR) dal CorSport in edicola:"II l fallimento del Milan è organizzativo prima ancora che sportivo e può condizionare il futuro del club. Tre anni di gestione RedBird bastano a tracciare un primo bilancio. Alcuni, tra cui chi scrive, si aspettavano un’evoluzione del lavoro svolto da Elliott ma il Milan sembra tornato indietro. Dopo averlo salvato dal default di Yonghong Li, il team di Furlani aveva riequilibrato conti dissestati e portato i costi a livelli sostenibili, per giunta nel periodo falcidiato dal Covid. A corredo di una ristrutturazione aziendale esemplare, la competitività non ne uscì mortifi - cata. Anzi, il Milan fu riportato in Champions dopo otto anni e poi allo scudetto: esiti insperati nella decadenza del basso impero berlusconiano con la surreale parentesi cinese. La risalita non fu un percorso lineare ma segnato da battute d’arresto, scelte infelici come Giampaolo o azzeccate come Pioli, acquisti provvidenziali come Ibra. Uno stop-and-go tipico della gestione aziendale, soprattutto in ecosistemi frenetici come il calcio, ma il percorso fu assai virtuoso. Da RedBird, investitore con esperienza di asset sportivi, ci si aspettava un salto quantico, una gestione più sofi sticata sul piano sportivo oltre che del branding. Elliott aveva riorganizzato un club disastrato, ricostruendo dalle macerie, ma con una visione da investitore fi nanziario. Gazidis (e Furlani dietro le quinte) lo fecero applicando un approccio innovativo per il calcio italiano, con scelte razionali anziché istintive. Il Milan faceva vanto della sua diversità: decisioni condivise, anche sul mercato, discusse da un gruppo di lavoro ampio in cui si confrontavano l’anima fi nanziaria e quella calcistica, rappresentata da Maldini e Boban, portatori di un punto di vista diverso dal rigore aziendale. La sintesi sembrò funzionare, fi nché le confl ittualità portarono a separazioni traumatiche. Da RedBird, che a Furlani ha consegnato il ruolo di CEO in continuità con Elliott, ci si aspettava l’evoluzione verso modelli gestionali da Premier dove le decisioni sono condivise e le organizzazioni molto strutturate. Il Milan sembrava abbandonare i personalismi della Serie A per avvicinarsi alle best practices dell’industria. Si pensi che il Real ha 3.600 dipendenti e il CEO Sánchez uno stile riservato ma una presa fortissima sulla struttura operativa, lasciando a Perez le luci della ribalta. Il Liverpool (che RedBird conosce, essendovi coinvestitore con Fenway) ha una struttura robusta e modelli decisionali strutturati. Nel Milan, tutto sembra replicato in scala troppo ridotta, con l’area sportiva poco presidiata rispetto alle altre. Anzi, con l’uscita di Maldini-Massara (mai rimpiazzati, non tanto nelle scelte di mercato, quanto nella supervisione quotidiana della squadra) il gruppo di lavoro è diventato gruppetto, o triunvirato con job descriptions vaghe, senza nemmeno la diversità (magari scomoda, sgradevole, ma talvolta utile) del confronto da piani opposti di cultura aziendale. Senza confronto si vive meglio ma si rischia di scivolare nell’autoreferenzialità, perciò la diversità è talvolta ricchezza. Il Milan l’ha persa e anche l’uso dei dati (al di là delle sciocche ironie sugli algoritmi) sembra meno sistematico rispetto ai top club. Ad aggravare il tutto, manca una comunicazione empatica su politiche societarie, scelte, obiettivi, a favore di un approccio ermetico da “lasciateci lavorare” che può anche premiare se i risultati arrivano ma diventa un boomerang nel caso opposto. Ora, azzeccando allenatore e un ds all’antica con ampi spazi di autonomia, il Milan potrebbe anche vincere il titolo rilanciando una rosa con individualità di alto livello. I tifosi se lo augurano, ci mancherebbe. Ma il paradosso è che sarebbe una retromarcia dal percorso manageriale che il progetto prometteva. Intanto, dovranno preoccuparsi di spegnere l’incendio: servono scelte forti da proprietà e dirigenza. Occorre riconquistare i tifosi, defi niti «partner» da Cardinale ma raramente trattati come tali, senza i quali un’azienda di intrattenimento perde valore. Servono quindi scelte non populiste ma popolari, che non sarà facile armonizzare con la cultura aziendale del Milan attuale.

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Questo è proprio il blabla che sta distruggendo e uccidendo il Milan per sempre.

Non è una questione di organizzazione aziendale. Dopo gli anni del Piccione, ci mancherebbe anche che non si fossero strutturati per mettere in piedi una società come si deve.

Sto tizio lo vende come chissa cosa, ma è proprio il minimo per una società come la nostra.

Il punto è un altro: sono le persone. I nostri, al di la dei curriculum taroccati e delle leccate dagli zoomati, sono un branco di cialtroni incompetenti. Gente improvvisata, dilettante, messa a fare un mestiere che non è il proprio.
 

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