Caro sette, sono più semplicemente affetti dalla medesima malattia che colpisce tutti gli occidentali riguardo ai cinesi: non li conoscono, o peggio, non li capiscono. Nel caso di specie, la incomprensione si scontra contro un muro concettuale, che è culturale: l'utilizzo sistematico di piazze finanziarie offshore, avulse dal tradizionale circuito bancario, per collocare, ed impiegare, l'immenso capitale accumulato in questi ultimi venticinque anni dal loro manifatturiero. Per noi occidentali, un crimine finanziario e fiscale, che pubblicamente censuriamo, e segretamente commettiamo; per costoro, un impiego normale delle proprie risorse, indifferente ai fini di interesse nazionale, che viene scrutinato alla barriera doganale, non dopo di essa. Per noi occidentali, sensibili alle tematiche del riciclaggio in attività finanziarie criminali, è decisivo l'apprezzamento della legislazione fiscale e tributaria di quei paradisi, che condizioniamo e contrastiamo; per i cinesi, il farlo sarebbe una interferenza indebita in affari interni ad uno Stato sovrano, inammissibile in ogni caso (specie se questa misura dovesse, per reciprocità, essere diretta nei loro riguardi, cosa che la Cina aborre sopra tutto). Qui il vallo tra noi e loro è una sorta di Grand Canyon: incolmabile, perché in mezzo non c'è nulla, un possibile compromesso. O lo si accetta, e lo si tollera, in regime di realpolitik, come prezzo di avere normali rapporti verso uno Stato troppo grande e potente come la Repubblica Popolare; o lo si combatte fino in fondo, e sul serio. L'Occidente ha da tempo scelto la prima strada, forse perché, assalito da un capitale cinese che in Occidente acquista un po' tutto, da immobili, ad imprese, a titoli del proprio debito pubblico, non aveva alternative. La globalizzazione, di cui tanto si è parlato: l'Occidente ha aperto il mercato tramite essa, ma il conto lo presenta Pechino.