Condò:"Milan rinnovato, Inter solidissima. Vale la fuga".

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Paolo Condò da Repubblica in edicola sul derby:

c’è un’evidente asimmetria emoti- va nel derby che va in scena doma- ni a San Siro. Inter e Milan viaggiano in testa alla classifica a punteggio pieno, oltre a vincere giocano bene e oltre a giocar bene palesano la consapevolezza di chi a primavera è andato molto lontano in Champions, e al di là dei proclami di umiltà così richiesti in questo mondo sa — è consapevole — di doversi guardare in Serie A da 6/7 squadre, non di più. Ma la diversità emotiva non viene da fuori, il suo innesco è dentro i club, dentro le tifoserie che da anni riempiono San Siro in ogni ordine di posti, anticipando la riscossa dei loro eroi. A dispetto del debito a monte, la cui risoluzione è demandata al prossimo proprietario — la scadenza debitoria di primavera pare la data in cui diventerà presente — l’Inter è un pianeta tranquillo, totalmente in mano al suo management italiano la cui abilità gestionale è riconosciuta in ogni angolo dell’agorà calcistica.

È il Milan a stropicciarsi gli occhi. O, meglio, a considerare con sorpreso compiacimento il livello della squadra allestita dalla proprietà RedBird non soltanto con i milioni incassati dal Newcastle per Tonali, ma mettendo a disposizione del mercato i proventi dell’ultima Champions, e ciononostante chiudendo il primo bilancio in attivo dal 2006. La defenestrazione di Paolo Maldini, unita alla subitanea cessione della nuova bandiera, aveva gettato nella costernazione una larga fetta del popolo rossonero, quella che con il nome Maldini si sentiva in debito: e giugno non era stata un’amarezza silenziosa, ma una valanga di critiche, improperi e tessere stracciate “sulla sfiducia” nel fondo-che-vuole-solo-fare-soldi. Beh, non è andata così e oggi tante chat riflettono su questo secondo ingresso nel mondo nuovo del quale il Milan è pioniere dopo il 1986 di Silvio Berlusconi, con il curioso e probabilmente non casuale sacrificio del figlio prediletto — Rivera allora, Maldini oggi — per non farsi distrarre dai sentimenti. Ma Berlusconi acquistò unMilan a metà classifica e reduce da due retrocessioni, mentre Cardinale ha acquisito un club che aveva appena vinto uno scudetto tanto inatteso quanto entusiasmante. Comunque, il paragone fra 1986 e 2023 resta calzante. Berlusconi fu il primo, almeno in Italia, a immaginare la moltiplicazione dei ricavi insita nel calcio televisivo; RedBird ha completato il (lungo) risanamento e l’ha festeggiato parlando di moneyball ma acquistando con occhi da scout. Oggi non c’è club che non lo invidi un po’ per l’equilibrio raggiunto fra bilancio in ordine e competitività della squadra. E se i tanti milanisti di sinistra all’epoca riuscirono a separare le vicende politiche del loro presidente da quelle sportive, figurarsi oggi che si parla soltanto di soldi.

L’eccezionalità di questo derby è ben descritta dalla strada a ritroso che si deve percorrere per trovare un precedente di milanesi a punteggio pieno dopo le prime tre partite: campionato 1971/72, da una parte Rivera e Prati e l’ultimo Nereo Rocco in panchina, dall’altra i superstiti della Grande Inter (Facchetti, Mazzola, Burgnich e Corso) sostenuti dai gol di Boninsegna. Il derby sarebbe arrivato alla settima giornata — 3-2 per il Milan — ma la circostanza storica più affascinante è che fra secondo e terzo turno di Serie A l’Inter giocò a Mönchengladbach la famosa partita della lattina. Insomma, ne è passato di tempo, e comunque quella volta vinse la Juventus dopo quattro anni di digiuno, che è più o meno la stessa paura odierna di Inzaghi e Pioli.
Ci sarà un convitato di pietra enorme domani a San Siro, il ricordo dei quattro derby consecutivi vinti dall’Inter fra gennaio (Supercoppa), febbraio (campionato) e maggio (due di Champions): per trovare una serie più lunga occorre tornare al dopoguerra (1946-1948) quando il Milan di Puricelli ne vinse sei di fila. Ma erano altri tempi, nulla di paragonabile al Ground Zero milanista di primavera. Pioli ha resistito grazie alla memoria dello scudetto. Inzaghi, che lo scudetto non l’ha ancora vinto, in analoga situazione non ce l’avrebbe fatta: le quattro vittorie, invece, hanno cementato il rapporto con la gente nerazzurra, e se ne è convinta pure la società che gli ha prolungato il contratto dopo una prima- vera a storcere il naso per le troppe sconfitte in campionato. Pioli s’è tolto con la partenza di Onana una grossa spina dal fianco, perché nelle quattro sconfitte il ruolo tatticamente attivo del portiere avversario era stato un rompicapo molesto; Inzaghi ha assorbito la botta di Lukaku dandone un’interpretazione diversa dalla vox popu- li che lo vuole sdegnato per la panchina di Istanbul. Per lui Romelu se n’è andato perché ha capito che l’ascesa di Lautaro è ormai compiuta, e l’aspirazione a recitare da leader tecnico come ai tempi di Conte non è più realistica. Lo stesso spogliatoio, guidato dal Toro e da Barella, è stato chiaro nel tagliar fuori il belga al primo telefono staccato. Lautaro e Leao sono le massime eccellenze in campo, modelli perfetti per una città che se la tira da matti, e ha molto sofferto le stagioni in cui il convento passava Ricky Alvarez e Bacca: nove anni fa l’Inter chiuse ottava e il Milan decimo, anche se tutti fingono di averlo dimenticato. Lautaro è rientrato ieri dal Sudamerica, e il fatto di aver giocato soltanto gli ultimi 5 minuti ai 3600 metri di La Paz è un plus. Leao è Leao, il pezzo pregiato per antonomasia: dei nove palloni infilati dal Portogallo nel sacco del Lussemburgo, però, nemmeno uno reca la sua firma. E d’accordo che Pioli gli ha dato quest’anno il numero 10, ma togliersi la puzza al naso quando si tratta di fare i gol banali è ciò che i milanisti si aspettano.
 
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c’è un’evidente asimmetria emoti- va nel derby che va in scena doma- ni a San Siro. Inter e Milan viaggiano in testa alla classifica a punteggio pieno, oltre a vincere giocano bene e oltre a giocar bene palesano la consapevolezza di chi a primavera è andato molto lontano in Champions, e al di là dei proclami di umiltà così richiesti in questo mondo sa — è consapevole — di doversi guardare in Serie A da 6/7 squadre, non di più. Ma la diversità emotiva non viene da fuori, il suo innesco è dentro i club, dentro le tifoserie che da anni riempiono San Siro in ogni ordine di posti, anticipando la riscossa dei loro eroi. A dispetto del debito a monte, la cui risoluzione è demandata al prossimo proprietario — la scadenza debitoria di primavera pare la data in cui diventerà presente — l’Inter è un pianeta tranquillo, totalmente in mano al suo management italiano la cui abilità gestionale è riconosciuta in ogni angolo dell’agorà calcistica.

È il Milan a stropicciarsi gli occhi. O, meglio, a considerare con sorpreso compiacimento il livello della squadra allestita dalla proprietà RedBird non soltanto con i milioni incassati dal Newcastle per Tonali, ma mettendo a disposizione del mercato i proventi dell’ultima Champions, e ciononostante chiudendo il primo bilancio in attivo dal 2006. La defenestrazione di Paolo Maldini, unita alla subitanea cessione della nuova bandiera, aveva gettato nella costernazione una larga fetta del popolo rossonero, quella che con il nome Maldini si sentiva in debito: e giugno non era stata un’amarezza silenziosa, ma una valanga di critiche, improperi e tessere stracciate “sulla sfiducia” nel fondo-che-vuole-solo-fare-soldi. Beh, non è andata così e oggi tante chat riflettono su questo secondo ingresso nel mondo nuovo del quale il Milan è pioniere dopo il 1986 di Silvio Berlusconi, con il curioso e probabilmente non casuale sacrificio del figlio prediletto — Rivera allora, Maldini oggi — per non farsi distrarre dai sentimenti. Ma Berlusconi acquistò unMilan a metà classifica e reduce da due retrocessioni, mentre Cardinale ha acquisito un club che aveva appena vinto uno scudetto tanto inatteso quanto entusiasmante. Comunque, il paragone fra 1986 e 2023 resta calzante. Berlusconi fu il primo, almeno in Italia, a immaginare la moltiplicazione dei ricavi insita nel calcio televisivo; RedBird ha completato il (lungo) risanamento e l’ha festeggiato parlando di moneyball ma acquistando con occhi da scout. Oggi non c’è club che non lo invidi un po’ per l’equilibrio raggiunto fra bilancio in ordine e competitività della squadra. E se i tanti milanisti di sinistra all’epoca riuscirono a separare le vicende politiche del loro presidente da quelle sportive, figurarsi oggi che si parla soltanto di soldi.

L’eccezionalità di questo derby è ben descritta dalla strada a ritroso che si deve percorrere per trovare un precedente di milanesi a punteggio pieno dopo le prime tre partite: campionato 1971/72, da una parte Rivera e Prati e l’ultimo Nereo Rocco in panchina, dall’altra i superstiti della Grande Inter (Facchetti, Mazzola, Burgnich e Corso) sostenuti dai gol di Boninsegna. Il derby sarebbe arrivato alla settima giornata — 3-2 per il Milan — ma la circostanza storica più affascinante è che fra secondo e terzo turno di Serie A l’Inter giocò a Mönchengladbach la famosa partita della lattina. Insomma, ne è passato di tempo, e comunque quella volta vinse la Juventus dopo quattro anni di digiuno, che è più o meno la stessa paura odierna di Inzaghi e Pioli.
Ci sarà un convitato di pietra enorme domani a San Siro, il ricordo dei quattro derby consecutivi vinti dall’Inter fra gennaio (Supercoppa), febbraio (campionato) e maggio (due di Champions): per trovare una serie più lunga occorre tornare al dopoguerra (1946-1948) quando il Milan di Puricelli ne vinse sei di fila. Ma erano altri tempi, nulla di paragonabile al Ground Zero milanista di primavera. Pioli ha resistito grazie alla memoria dello scudetto. Inzaghi, che lo scudetto non l’ha ancora vinto, in analoga situazione non ce l’avrebbe fatta: le quattro vittorie, invece, hanno cementato il rapporto con la gente nerazzurra, e se ne è convinta pure la società che gli ha prolungato il contratto dopo una prima- vera a storcere il naso per le troppe sconfitte in campionato. Pioli s’è tolto con la partenza di Onana una grossa spina dal fianco, perché nelle quattro sconfitte il ruolo tatticamente attivo del portiere avversario era stato un rompicapo molesto; Inzaghi ha assorbito la botta di Lukaku dandone un’interpretazione diversa dalla vox popu- li che lo vuole sdegnato per la panchina di Istanbul. Per lui Romelu se n’è andato perché ha capito che l’ascesa di Lautaro è ormai compiuta, e l’aspirazione a recitare da leader tecnico come ai tempi di Conte non è più realistica. Lo stesso spogliatoio, guidato dal Toro e da Barella, è stato chiaro nel tagliar fuori il belga al primo telefono staccato. Lautaro e Leao sono le massime eccellenze in campo, modelli perfetti per una città che se la tira da matti, e ha molto sofferto le stagioni in cui il convento passava Ricky Alvarez e Bacca: nove anni fa l’Inter chiuse ottava e il Milan decimo, anche se tutti fingono di averlo dimenticato. Lautaro è rientrato ieri dal Sudamerica, e il fatto di aver giocato soltanto gli ultimi 5 minuti ai 3600 metri di La Paz è un plus. Leao è Leao, il pezzo pregiato per antonomasia: dei nove palloni infilati dal Portogallo nel sacco del Lussemburgo, però, nemmeno uno reca la sua firma. E d’accordo che Pioli gli ha dato quest’anno il numero 10, ma togliersi la puzza al naso quando si tratta di fare i gol banali è ciò che i milanisti si aspettano.
Pepperepepepepe
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È il Milan a stropicciarsi gli occhi. O, meglio, a considerare con sorpreso compiacimento il livello della squadra allestita dalla proprietà RedBird non soltanto con i milioni incassati dal Newcastle per Tonali, ma mettendo a disposizione del mercato i proventi dell’ultima Champions, e ciononostante chiudendo il primo bilancio in attivo dal 2006. La defenestrazione di Paolo Maldini, unita alla subitanea cessione della nuova bandiera, aveva gettato nella costernazione una larga fetta del popolo rossonero, quella che con il nome Maldini si sentiva in debito: e giugno non era stata un’amarezza silenziosa, ma una valanga di critiche, improperi e tessere stracciate “sulla sfiducia” nel fondo-che-vuole-solo-fare-soldi. Beh, non è andata così e oggi tante chat riflettono su questo secondo ingresso nel mondo nuovo del quale il Milan è pioniere dopo il 1986 di Silvio Berlusconi, con il curioso e probabilmente non casuale sacrificio del figlio prediletto — Rivera allora, Maldini oggi — per non farsi distrarre dai sentimenti. Ma Berlusconi acquistò unMilan a metà classifica e reduce da due retrocessioni, mentre Cardinale ha acquisito un club che aveva appena vinto uno scudetto tanto inatteso quanto entusiasmante. Comunque, il paragone fra 1986 e 2023 resta calzante. Berlusconi fu il primo, almeno in Italia, a immaginare la moltiplicazione dei ricavi insita nel calcio televisivo; RedBird ha completato il (lungo) risanamento e l’ha festeggiato parlando di moneyball ma acquistando con occhi da scout. Oggi non c’è club che non lo invidi un po’ per l’equilibrio raggiunto fra bilancio in ordine e competitività della squadra. E se i tanti milanisti di sinistra all’epoca riuscirono a separare le vicende politiche del loro presidente da quelle sportive, figurarsi oggi che si parla soltanto di soldi.

L’eccezionalità di questo derby è ben descritta dalla strada a ritroso che si deve percorrere per trovare un precedente di milanesi a punteggio pieno dopo le prime tre partite: campionato 1971/72, da una parte Rivera e Prati e l’ultimo Nereo Rocco in panchina, dall’altra i superstiti della Grande Inter (Facchetti, Mazzola, Burgnich e Corso) sostenuti dai gol di Boninsegna. Il derby sarebbe arrivato alla settima giornata — 3-2 per il Milan — ma la circostanza storica più affascinante è che fra secondo e terzo turno di Serie A l’Inter giocò a Mönchengladbach la famosa partita della lattina. Insomma, ne è passato di tempo, e comunque quella volta vinse la Juventus dopo quattro anni di digiuno, che è più o meno la stessa paura odierna di Inzaghi e Pioli.
Ci sarà un convitato di pietra enorme domani a San Siro, il ricordo dei quattro derby consecutivi vinti dall’Inter fra gennaio (Supercoppa), febbraio (campionato) e maggio (due di Champions): per trovare una serie più lunga occorre tornare al dopoguerra (1946-1948) quando il Milan di Puricelli ne vinse sei di fila. Ma erano altri tempi, nulla di paragonabile al Ground Zero milanista di primavera. Pioli ha resistito grazie alla memoria dello scudetto. Inzaghi, che lo scudetto non l’ha ancora vinto, in analoga situazione non ce l’avrebbe fatta: le quattro vittorie, invece, hanno cementato il rapporto con la gente nerazzurra, e se ne è convinta pure la società che gli ha prolungato il contratto dopo una prima- vera a storcere il naso per le troppe sconfitte in campionato. Pioli s’è tolto con la partenza di Onana una grossa spina dal fianco, perché nelle quattro sconfitte il ruolo tatticamente attivo del portiere avversario era stato un rompicapo molesto; Inzaghi ha assorbito la botta di Lukaku dandone un’interpretazione diversa dalla vox popu- li che lo vuole sdegnato per la panchina di Istanbul. Per lui Romelu se n’è andato perché ha capito che l’ascesa di Lautaro è ormai compiuta, e l’aspirazione a recitare da leader tecnico come ai tempi di Conte non è più realistica. Lo stesso spogliatoio, guidato dal Toro e da Barella, è stato chiaro nel tagliar fuori il belga al primo telefono staccato. Lautaro e Leao sono le massime eccellenze in campo, modelli perfetti per una città che se la tira da matti, e ha molto sofferto le stagioni in cui il convento passava Ricky Alvarez e Bacca: nove anni fa l’Inter chiuse ottava e il Milan decimo, anche se tutti fingono di averlo dimenticato. Lautaro è rientrato ieri dal Sudamerica, e il fatto di aver giocato soltanto gli ultimi 5 minuti ai 3600 metri di La Paz è un plus. Leao è Leao, il pezzo pregiato per antonomasia: dei nove palloni infilati dal Portogallo nel sacco del Lussemburgo, però, nemmeno uno reca la sua firma. E d’accordo che Pioli gli ha dato quest’anno il numero 10, ma togliersi la puzza al naso quando si tratta di fare i gol banali è ciò che i milanisti si aspettano.

Si si si tutti tranquilli anche l'anno scorso, vicini alla crisi di nervi
Onana venduto perchè avevano troppi portieri
Il prezzo di Lukaku e Sommer trattato per settimane perchè bisogna dare un segnale di austherity considerati i problemi globali
Tutti i 'pagherò però intanto prestami il giocatore che forse forse lo riscatto se tiro su i soldi' sono solo compartecipazione
La richiesta di posticipare scandenze finanziarie è solo fede, un atto finalmente religioso per far emergere valori antichi
Va tutto bene e il Mulino bianco ora è decisamente nerazzurro

Il Milan è nuovo, non decifrabile, non chiaro, con giocatori nuovi, difficili nuovi equilibri, un proprietario che non conosce il calcio, figuriamoci quello più bello e tattico, quello italiano, poi non ha comprovata conoscenza delle dinamiche della Lega Serie A, gli altri attori non lo conoscono e la stima, si sà, deve costruirsi a suon di favori, negli anni, così questo Milan è soprendente, perchè anche se investe, innova, fa scouting, usa i dati, ha costruito una squadra di professionisti, si apre a collaborazioni nuove e attuali, se aumenta gli introiti pur osteggiato da casa Agnelli e il PDiota nerazzurro Sala sulla questione Stadio, nonostante decisioni contro, è incredibilmente primo, incredibilmente offre prestazioni convincenti, ma non dovrebbe essere così, non potrebbe essere competitivo, dovrebbe essere da 4° o 5° posto e i giocatori confusi, nuovi in rodaggio, dovrebbe fare fatica nei movimenti in campo perchè Pioli è un pirla, anzi forse un Pirlo più fortunato, ,a certamente mediocre, che commette tantissimi errori, mentre invece la perfezione di Inzaghi e Mourinho, di Allegri e Sarri servono da controaltare, strano che giocatori muovendosi a caso per il campo, riescano a produrre gioco armonioso, ma deve esserci qualcosa di casuale, che finirà presto, perchè tutti si aspettano il Milan sia quello strapazzato dall'Atalanta diversi anni fa.
 
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È il Milan a stropicciarsi gli occhi. O, meglio, a considerare con sorpreso compiacimento il livello della squadra allestita dalla proprietà RedBird non soltanto con i milioni incassati dal Newcastle per Tonali, ma mettendo a disposizione del mercato i proventi dell’ultima Champions, e ciononostante chiudendo il primo bilancio in attivo dal 2006. La defenestrazione di Paolo Maldini, unita alla subitanea cessione della nuova bandiera, aveva gettato nella costernazione una larga fetta del popolo rossonero, quella che con il nome Maldini si sentiva in debito: e giugno non era stata un’amarezza silenziosa, ma una valanga di critiche, improperi e tessere stracciate “sulla sfiducia” nel fondo-che-vuole-solo-fare-soldi. Beh, non è andata così e oggi tante chat riflettono su questo secondo ingresso nel mondo nuovo del quale il Milan è pioniere dopo il 1986 di Silvio Berlusconi, con il curioso e probabilmente non casuale sacrificio del figlio prediletto — Rivera allora, Maldini oggi — per non farsi distrarre dai sentimenti. Ma Berlusconi acquistò unMilan a metà classifica e reduce da due retrocessioni, mentre Cardinale ha acquisito un club che aveva appena vinto uno scudetto tanto inatteso quanto entusiasmante. Comunque, il paragone fra 1986 e 2023 resta calzante. Berlusconi fu il primo, almeno in Italia, a immaginare la moltiplicazione dei ricavi insita nel calcio televisivo; RedBird ha completato il (lungo) risanamento e l’ha festeggiato parlando di moneyball ma acquistando con occhi da scout. Oggi non c’è club che non lo invidi un po’ per l’equilibrio raggiunto fra bilancio in ordine e competitività della squadra. E se i tanti milanisti di sinistra all’epoca riuscirono a separare le vicende politiche del loro presidente da quelle sportive, figurarsi oggi che si parla soltanto di soldi.

L’eccezionalità di questo derby è ben descritta dalla strada a ritroso che si deve percorrere per trovare un precedente di milanesi a punteggio pieno dopo le prime tre partite: campionato 1971/72, da una parte Rivera e Prati e l’ultimo Nereo Rocco in panchina, dall’altra i superstiti della Grande Inter (Facchetti, Mazzola, Burgnich e Corso) sostenuti dai gol di Boninsegna. Il derby sarebbe arrivato alla settima giornata — 3-2 per il Milan — ma la circostanza storica più affascinante è che fra secondo e terzo turno di Serie A l’Inter giocò a Mönchengladbach la famosa partita della lattina. Insomma, ne è passato di tempo, e comunque quella volta vinse la Juventus dopo quattro anni di digiuno, che è più o meno la stessa paura odierna di Inzaghi e Pioli.
Ci sarà un convitato di pietra enorme domani a San Siro, il ricordo dei quattro derby consecutivi vinti dall’Inter fra gennaio (Supercoppa), febbraio (campionato) e maggio (due di Champions): per trovare una serie più lunga occorre tornare al dopoguerra (1946-1948) quando il Milan di Puricelli ne vinse sei di fila. Ma erano altri tempi, nulla di paragonabile al Ground Zero milanista di primavera. Pioli ha resistito grazie alla memoria dello scudetto. Inzaghi, che lo scudetto non l’ha ancora vinto, in analoga situazione non ce l’avrebbe fatta: le quattro vittorie, invece, hanno cementato il rapporto con la gente nerazzurra, e se ne è convinta pure la società che gli ha prolungato il contratto dopo una prima- vera a storcere il naso per le troppe sconfitte in campionato. Pioli s’è tolto con la partenza di Onana una grossa spina dal fianco, perché nelle quattro sconfitte il ruolo tatticamente attivo del portiere avversario era stato un rompicapo molesto; Inzaghi ha assorbito la botta di Lukaku dandone un’interpretazione diversa dalla vox popu- li che lo vuole sdegnato per la panchina di Istanbul. Per lui Romelu se n’è andato perché ha capito che l’ascesa di Lautaro è ormai compiuta, e l’aspirazione a recitare da leader tecnico come ai tempi di Conte non è più realistica. Lo stesso spogliatoio, guidato dal Toro e da Barella, è stato chiaro nel tagliar fuori il belga al primo telefono staccato. Lautaro e Leao sono le massime eccellenze in campo, modelli perfetti per una città che se la tira da matti, e ha molto sofferto le stagioni in cui il convento passava Ricky Alvarez e Bacca: nove anni fa l’Inter chiuse ottava e il Milan decimo, anche se tutti fingono di averlo dimenticato. Lautaro è rientrato ieri dal Sudamerica, e il fatto di aver giocato soltanto gli ultimi 5 minuti ai 3600 metri di La Paz è un plus. Leao è Leao, il pezzo pregiato per antonomasia: dei nove palloni infilati dal Portogallo nel sacco del Lussemburgo, però, nemmeno uno reca la sua firma. E d’accordo che Pioli gli ha dato quest’anno il numero 10, ma togliersi la puzza al naso quando si tratta di fare i gol banali è ciò che i milanisti si aspettano.
Un movimento calcistico che loda l'inter merita la serie d del calcio.
Oggi scopriamo da condo' che l'inter è tranquilla...

E si, tasse e debiti li spalmano per passione.


La marmotta confeziona la cioccolata e zhang spalma debiti.
Un mondo meraviglioso.
 

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È il Milan a stropicciarsi gli occhi. O, meglio, a considerare con sorpreso compiacimento il livello della squadra allestita dalla proprietà RedBird non soltanto con i milioni incassati dal Newcastle per Tonali, ma mettendo a disposizione del mercato i proventi dell’ultima Champions, e ciononostante chiudendo il primo bilancio in attivo dal 2006. La defenestrazione di Paolo Maldini, unita alla subitanea cessione della nuova bandiera, aveva gettato nella costernazione una larga fetta del popolo rossonero, quella che con il nome Maldini si sentiva in debito: e giugno non era stata un’amarezza silenziosa, ma una valanga di critiche, improperi e tessere stracciate “sulla sfiducia” nel fondo-che-vuole-solo-fare-soldi. Beh, non è andata così e oggi tante chat riflettono su questo secondo ingresso nel mondo nuovo del quale il Milan è pioniere dopo il 1986 di Silvio Berlusconi, con il curioso e probabilmente non casuale sacrificio del figlio prediletto — Rivera allora, Maldini oggi — per non farsi distrarre dai sentimenti. Ma Berlusconi acquistò unMilan a metà classifica e reduce da due retrocessioni, mentre Cardinale ha acquisito un club che aveva appena vinto uno scudetto tanto inatteso quanto entusiasmante. Comunque, il paragone fra 1986 e 2023 resta calzante. Berlusconi fu il primo, almeno in Italia, a immaginare la moltiplicazione dei ricavi insita nel calcio televisivo; RedBird ha completato il (lungo) risanamento e l’ha festeggiato parlando di moneyball ma acquistando con occhi da scout. Oggi non c’è club che non lo invidi un po’ per l’equilibrio raggiunto fra bilancio in ordine e competitività della squadra. E se i tanti milanisti di sinistra all’epoca riuscirono a separare le vicende politiche del loro presidente da quelle sportive, figurarsi oggi che si parla soltanto di soldi.

L’eccezionalità di questo derby è ben descritta dalla strada a ritroso che si deve percorrere per trovare un precedente di milanesi a punteggio pieno dopo le prime tre partite: campionato 1971/72, da una parte Rivera e Prati e l’ultimo Nereo Rocco in panchina, dall’altra i superstiti della Grande Inter (Facchetti, Mazzola, Burgnich e Corso) sostenuti dai gol di Boninsegna. Il derby sarebbe arrivato alla settima giornata — 3-2 per il Milan — ma la circostanza storica più affascinante è che fra secondo e terzo turno di Serie A l’Inter giocò a Mönchengladbach la famosa partita della lattina. Insomma, ne è passato di tempo, e comunque quella volta vinse la Juventus dopo quattro anni di digiuno, che è più o meno la stessa paura odierna di Inzaghi e Pioli.
Ci sarà un convitato di pietra enorme domani a San Siro, il ricordo dei quattro derby consecutivi vinti dall’Inter fra gennaio (Supercoppa), febbraio (campionato) e maggio (due di Champions): per trovare una serie più lunga occorre tornare al dopoguerra (1946-1948) quando il Milan di Puricelli ne vinse sei di fila. Ma erano altri tempi, nulla di paragonabile al Ground Zero milanista di primavera. Pioli ha resistito grazie alla memoria dello scudetto. Inzaghi, che lo scudetto non l’ha ancora vinto, in analoga situazione non ce l’avrebbe fatta: le quattro vittorie, invece, hanno cementato il rapporto con la gente nerazzurra, e se ne è convinta pure la società che gli ha prolungato il contratto dopo una prima- vera a storcere il naso per le troppe sconfitte in campionato. Pioli s’è tolto con la partenza di Onana una grossa spina dal fianco, perché nelle quattro sconfitte il ruolo tatticamente attivo del portiere avversario era stato un rompicapo molesto; Inzaghi ha assorbito la botta di Lukaku dandone un’interpretazione diversa dalla vox popu- li che lo vuole sdegnato per la panchina di Istanbul. Per lui Romelu se n’è andato perché ha capito che l’ascesa di Lautaro è ormai compiuta, e l’aspirazione a recitare da leader tecnico come ai tempi di Conte non è più realistica. Lo stesso spogliatoio, guidato dal Toro e da Barella, è stato chiaro nel tagliar fuori il belga al primo telefono staccato. Lautaro e Leao sono le massime eccellenze in campo, modelli perfetti per una città che se la tira da matti, e ha molto sofferto le stagioni in cui il convento passava Ricky Alvarez e Bacca: nove anni fa l’Inter chiuse ottava e il Milan decimo, anche se tutti fingono di averlo dimenticato. Lautaro è rientrato ieri dal Sudamerica, e il fatto di aver giocato soltanto gli ultimi 5 minuti ai 3600 metri di La Paz è un plus. Leao è Leao, il pezzo pregiato per antonomasia: dei nove palloni infilati dal Portogallo nel sacco del Lussemburgo, però, nemmeno uno reca la sua firma. E d’accordo che Pioli gli ha dato quest’anno il numero 10, ma togliersi la puzza al naso quando si tratta di fare i gol banali è ciò che i milanisti si aspettano.
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