In finanza, è regola aurea che avere i soldi è la stessa cosa del farseli prestare, al netto dell'aggio dovuto, si intende. Non si può, ipoteticamente, assumere di aver ricevuto in prestito 1,1-1,2 miliardi di euro, quali sono quelli investiti da quest'uomo di Hong Kong nel Milan, senza con ciò ammettere che egli abbia assets patrimoniali disponibili, pari almeno al 80-100 per cento di valore superiore a quello finanziato, che garantiscano il prestatore del rimborso del prestito e del pagamento degli interessi pattuiti. Gli assets rivenienti dal patrimonio del target, il Milan, solo in parte sostengono questa base, che dunque è fortificata da altri elementi, ignoti al New York Times, perso sulle false piste di miniere di fosfati di Changxing. Fossimo nel bravo giornalista del celeberrimo quotidiano, guarderemmo nei conti delle banche di Cayman, Singapore, Vergini Britanniche, o nelle piattaforme digitali di bitcoins, ove fluttua, sinora indisturbato, l'oceano della ricchezza nascosta di questi miliardari in euro provenienti da Cina ed Hong Kong. Il New York Times, tuttavia, vi perderebbe presto lo sguardo: l'apparente accessibilità a quei conti, garantita dalle recenti convenzioni internazionali sulla lotta al riciclaggio, si attiva sull'impulso delle autorità investigative tributarie dei singoli Paesi interessati, e la Cina sinora non solo ha dimostrato riluttanza ad investigazioni di questo tipo, ma si è ben guardata dall'includere quei Paesi tra quelli cosiddetti canaglia, ritenendoli offshore rispetto alla giurisdizione bancaria esercitata dal Fondo Monetario Internazionale, che essa ritiene presidio del potere del grande avversario nella egemonia sul mondo, gli USA. La Cina reputa che gli unici controlli valutari efficienti ed interessati sui capitali interni privati siano i propri, alla barriera doganale, ed ha il potere di limitarne o escluderne la circolazione su estero, se necessario, ove lo ritenga non conforme agli interessi nazionali. Quando il capitale è ormai fuori, per la Cina è indifferente l'utilizzo, se non per le decisioni strategiche sui futuri impieghi di quello tuttora detenuto nelle proprie banche interne, non a caso tutte pubbliche statali. Ciò, senza considerare che la totalità delle società imprenditoriali e finanziarie a controllo pubblico, locale o statale centrale, ha appoggi operativi in controllate con sede legale in molti di quei paradisi fiscali, ove accumula risorse finanziarie strategiche accuratamente lontane dalla influenza tributaria dell'Occidente; e senza considerare, come detto, l'impatto della enorme ricchezza finanziaria, accumulata in questi venti anni dai paesi del Far East, nelle piattaforme di scambio dei bitcoins, la moneta senza valuta, che emerge improvvisa dalle connessioni alle reti telematiche senza alcun passaggio bancario, nemmeno in Cina. Il paradiso vero ed ignoto di un Paese, la Cina, che sulla cessione del manifatturiero a contanti ha fondato il proprio impero, dalla madrepatria ai quattro angoli del mondo. Un campo largo, anzi smisurato, entro cui l'occhio conformista dell'osservatore occidentale si aggira con difficoltà, causa il muro culturale ed ideologico che lo separa da quel mondo. Le miniere di fosfati che ci sono, o forse non ci sono, possono consolare il giornalista di New York su una presunta assenza di valore, ma non spiegano la ricchezza finanziaria di un Paese divenuto grande senza avere materie prime o ricchezze naturali interne, ma semplicemente acquistandole su estero, trasformandole, rivendendole a contanti, e lucrando finanziariamente i ricavi, con costi di produzione imbattibili. Prima o poi lo capiremo, questo, dei signori cinesi. Sino ad allora farà comodo dire banalmente, con Squinzi, che sono semplicemente diversi.