Anche il Modena era di proprietà di Caliendo, anche il Parma era di proprietà di Ghirardi, anche la Fiorentina era di proprietà di Cecchi Gori, anche il Parma era di proprietà di Tanzi, anche la Lazio era proprietà di Cragnotti. E si potrebbe andare avanti all'infinito.
Il sistema calcio in Italia, in analogia al sistema bancario, ha portato ad un mostro strutturale in cui l'organo controllore dei conti, la COVISOC, più o meno dolosamente ha trascurato elementi di fatto che hanno portato quasi tutte le società di calcio alla rovina ed almeno uno se non due fallimenti a testa negli ultimi 20 anni.
La pantomima si ripete ogni anno perché squadre virtualmente fallite (Palermo, Genoa e Cesena i prossimi casi più eclatanti, poi ci sono tre/quarti delle squadre di C) col solo adempimento della fideiussione (spesso falsa o fittizia) ad inizio anno possono iscriversi a campionati a cui non potrebbero partecipare ed all'interno del quale riverberano la bolla su tutto il sistema.
Io non voglio insinuare nulla sul Milan anche perché banalmente nulla sappiamo al netto di qualche bella chiacchiera di Fassone (che per altro nemmeno esclude scenari sospetti), inoltre rientriamo nella categoria del "too big to fail", ovvero società talmente rilevanti nel giro di affari e di rilevanza nazionale che difficilmente possono subire drammi nella continuità aziendale.
Ma tra la proprietà occulta, la provenienza dei fondi mai chiarita, i misteri burocratici dalla Cina, il ruolo incomprensibile del governo, la totale alea che circonda il progetto Milan China, il ruolo di sciacallaggio ben noto di Elliot, la sequenza cronologica degli eventi, i problemi drammatici in fase di closing, le rate posticipate del passaggio di proprietà, i paradisi fiscali in prima linea, i magheggi finanziari acclarati, i ri-finanziamenti in corsa sui prestiti, gli interessi inquietanti sui prestiti, le previsioni sul fatturato già di loro a dir poco ambiziose che sono subito sballate per la mancata Champions, le "preoccupazioni" ufficiali della UEFA, beh, io davvero invidio chi rigetta al mittente qualsiasi dubbio.
Ed in questo contesto continuare a vedere nemici in chi, giornalista o altro che sia, vuole far luce sulla nostra situazione a dir poco nebulosa, quando invece secondo me sono i primi che dovremmo se non ringraziare per lo meno comprendere al netto di eventuali interessi personali, mi sembra l'approccio sbagliato, fosse solo per evitare di non arrivare pronti in caso di spiacevoli sorprese.
Il problema è strutturale, di dimensione planetaria, con tutte le note questioni di integrazione di sistemi diversi, con normative regolatrici differenti, griglie di controllo diverse, con limitate possibilità di coordinamento e di armonizzazione perché si tratta di sistemi informati a principii politici, e financo ideologici, talora tra loro opposti ed irriducibili ad unità. Ai problemi incidentalmente sollevati, ma non approfonditi, da queste inchieste giornalistiche o dalle interrogazioni parlamentari, che attengono alla effettività della giurisdizione tributaria e fiscale su capitali non prodotti in ambito nazionale o comunitario europeo, si aggiungono quelli, più complessi, relativi ai meccanismi di ingresso dei capitali finanziari sui mercati quotati di taluni Paesi, ovvero su quelli non quotati, over the counter, nelle forme estreme della operatività su derivati, vendite allo scoperto tramite contrattazione parcellizzata di quote azionarie scambiate in nanosecondi, da traders costituiti da computers controllati da segreti algoritmi, alle cui ignote strategie speculative sono affidate le sorti del mercato, dalle quotazioni di compagnie private, ai futures sui titoli del debito pubblico, ai livelli di spread tra questi ultimi, di cui infine conosciamo la drammatica rilevanza sui bilanci degli Stati. Un capitalismo finanziario che campa rigogliosamente sulla tenuita' dei livelli di accesso di taluni mercati, o sulla inesistenza concettuale di soglie di accesso, sulla opacità dei sistemi di controllo degli accreditamenti dei singoli players, sulla inattingibilita' delle tecnologie di formazione della domanda di acquisto e vendita degli strumenti finanziari, sulla segretezza dei meccanismi di entrata ed uscita dei capitali da questo sistema, con finalità palesemente elusiva dei controlli bancari e fiscali. Una soluzione ci sarebbe, ma è rivoluzionaria, ed è rifiutare tutto questo, rifugiarsi nell'idea, cosmetica e romantica, di un capitalismo industriale, di capitale interamente versato, che tuttavia non esiste più in un sistema economico travolto dagli effetti della crisi, della globalizzazione, di un capitalismo finanziario, privato e statale, drogato dal debito, che presuppone l'assenza di capitale accumulato, ma la capacità di farselo prestare, e di pagarlo con gli interessi nel tempo. Se, poi, l'equity vero nell'era attuale proviene da fondi costituiti nei Paesi del Golfo, che impiegano essi fungibilmente nel finanziamento di squadre di calcio ovvero di organizzazioni terroristiche di tagliatori di teste, o da Paesi, come la Cina, che sistematicamente impiegano fondi in uscita verso piazze finanziarie off-shore, prima di approdare in mercati quotati, come Hong Kong, Singapore e Macao, o altri, con risibili soglie di accesso, completando così un giro di riciclaggio di denaro, netto da rilevanti imposizioni fiscali, ecco allora che si palesa tutto il senso di oggettiva impossibilità di escludere un mondo finanziario che preme per entrare nel calcio, e da cui il calcio, bulimico di risorse, è attratto. Dove è la soluzione, allora? È dentro il sistema calcistico, che può e deve garantire, contro l'opacita' e l'indeterminatezza del mondo esterno, le condizioni per funzionare come ha sempre fatto, bene o male, e continuare pertanto ad essere appetibile da quel mondo: regolarità dei bilanci, continuità aziendale, patrimonializzazione dei clubs, equità dei trattamenti tra i vari players, meccanismo di formazione del risultato sportivo affidato al caso ed al merito, competitività reale, quanto più effettiva, di tutti i soggetti. Plaudiamo allora al Fair Play Finanziario ed ai suoi principii che, per quanto perfettibili, esprimono l'idea di clubs di calcio che cerchino il pareggio di bilancio e l'autofinanziamento: centri economici, cioè, che non siano solo cloache di costi, ma anche fucine di utili. Una idea di virtù e trasparenza di un mondo che, per sopravvivere, deve proteggersi, e per farlo deve dimostrare di fare buona pratica del capitale che gli viene affidato, per poter chiedere domani di impiegarne altro. Temiamo dunque che le sacrosante domande sulla provenienza dei fondi di Mr. Li non avranno risposta, se non quella che vorrà fornirci l'interessato, ma come tifosi pretendiamo che quei fondi siano impiegati nel Milan in modo sano, sostenibile, profittevole, legittimo. Su questo non transigeremo di un millimetro, e nell'ipotesi negativa ci batteremo perché chi briga con il club ne sia tagliato fuori. Perché il Milan è di chi lo ama e lo vuole grande, non di chi intende servirsi di esso per i suoi fini.
