Sono praticamente tutti nati o almeno cresciuti sin da tenera età in Francia. Nei Paesi di origine dei genitori ci saranno stati giusto in vacanza.
Poi, comunque, per arrivare a quei livelli devi essere uno sportivo nel DNA e a nessuno sportivo piace perdere.
A livello di risultati negli ultimi due Mondiali hanno fatto primo e secondo posto. Hanno toppato solo euro 2020 uscendo agli ottavi ai rigori. Uscire in semifinale con la Spagna ci sta. Peraltro, sono stati puniti da due episodi perché alla fine a livello di occasioni non hanno demeritato.
Ieri ho trovato incredibile il fatto che si ostinassero ad andare su Dembélé, che ieri era palesemente in una delle sue innumerevoli serate da tutto fumo e niente arrosto. Se una partita del genere l’avesse fatta Leao lo avrebbero lapidato in sala stampa…
Detto questo, la Francia che perde non è mai una brutta notizia.
Non lo so, amico mio: secondo me, il discorso è un po’ più complesso. Non credo che sia sufficiente nascere in un Paese per sentirsi parte integrante dello stesso: è fondamentale il tipo di educazione ricevuta, specie tra le mura domestiche. Alcuni di questi ragazzi, magari, sono stati educati da genitori che, comprensibilmente, hanno mantenuto vivi legami e tradizioni con il luogo d’origine e li hanno poi trasmessi ai figli. Questi, poi, si sentono come sospesi tra due mondi e non riescono a legarsi davvero al Paese che li ospita.
Penso anche al Milan: invochiamo sempre giocafori italiani e milanisti, perché non si risparmiano per la maglia. Alcuni di questi ragazzi francesi avranno scelto la maglia dei Galletti perché più prestigiosa, ma non se la sentono loro.
Ovviamente è un discorso ipotetico: può benissimo essere che Tchouaméni, nome a caso, ami la Francia più del Pavard di turno.