Tutto il mondo ultraprogressista non fa che parlare del “catcalling”, “tema” sollevato in Italia da (nientepopodimemo) Aurora Ramazzotti.
Il solito demenziale editoriale di Servergnini sul Corsera, che tira in ballo addirittura un film degli anni ‘70 per denunciare il problema
Catcalling. Odioso fin dal nome. Chiamiamolo come (de)merita: molestia da strada. L’espressione viene da «catcall», uno strumento che si usava a teatro nel XVII secolo, in Inghilterra. Serviva al pubblico per esprimere disapprovazione, e produceva un suono stridulo, come il verso di un gatto (cat) arrabbiato.
Perché l’inglese non va bene? Perché conferisce una patina di attualità e fornisce un’attenuante. Marketing della morale, non serve. Chiamiamo le cose col loro nome. Catcalling vuol dire molestare una donna per strada con fischi, gridolini, battute, proposte.
Giorni fa, un noto conduttore radiofonico voleva convincere gli ascoltatori: gridare a una donna sconosciuta che ha un bel seno - lui usava un altro termine, plurale - è un complimento, non una molestia. Tesi sbagliata e pericolosa. Vuol dire scusare un comportamento grave, e assolvere chi lo tiene. Le molestie da strada non sono nuove.
Mi è capitato di vedere l’inizio di un film con Ugo Tognazzi,La bambolona (1968). I primi minuti sono un lungo pedinamento: un uomo di mezza età vede una diciassettenne formosa in un bar e la segue fin sulla porta dell’appartamento, all’interno del palazzo. I genitori dei lei se ne accorgono, e sono pure contenti. La mancanza di riprovazione sociale è evidente. Certi uomini c’erano allora e ci sono oggi. La differenza è che le donne italiane, giustamente, non ne possono più.