In questi giorni, chiunque conosca Silvio si è posto quasi istintivamente due domande: venderà? e soprattutto, cosa più importante del vendere il Milan, come venderà a livello di immagine questa eventualità che fa a pugni con la sua storia di conquistatore e non di dominato? La risposta è come sempre sorprendente, paradossale, tipicamente berlusconiana: negare l'evidenza della realtà che sta accadendo, come se egli inconsapevolmente la subisse, e non invece la determinasse in ogni suo passo. Con un occhio ai sondaggi: puoi vendere Pirelli e Prada allo straniero, e le vedove del made in Italy si inchinano alla ragione economica, ma vendergli il Milan no, è un'offesa alla memoria dei padri, alla storia individuale e collettiva di ognuno di noi, una resa del nostro sapere in una materia, il calcio, in cui riteniamo, a torto o a ragione, di essere i maestri infallibili. E quindi, vai con i comunicati su Facebook, i video, le messaggiate a reti unificate, l'alzabandiera dell'orgoglio nazionalista e rossonero, la rivendicazione di un progetto autarchico. Ma: negli ultimi due anni Silvio, che dice ora di voler vendere il Milan (tant’è che ci sta provando da un anno), e non più di costruirci sopra un progetto di squadra giovane ed italiana, ha trattato esclusivamente con soggetti di nazionalità estera, che certamente sapeva essere tali; Fininvest, nella individuazione di un partner per l'eventuale dismissione, ha ingaggiato uno degli agenti principe del mercato nordamericano, Galatioto, con inesistente esperienza della serie A e di potenziali acquirenti sul mercato italiano ed europeo: non il consulente ideale, per capirsi, intorno a cui legare una cordata di imprenditori della Bergamasca; l'identità parzialmente svelata dei componenti del consorzio cinese non è mai stata smentita da Fininvest. Berlusconi sa benissimo che sta trattando con soggetti stranieri di grandi capacità finanziarie, ma percepisce, non a torto, che ciò viene valutato positivamente dalla pubblica opinione non perché questo esprima un valore in sé, ma semplicemente perché costituisce il tramite necessario, ma non necessariamente preferibile, per restituire il Milan alla competitività cui era abituato. Il capobastone politico asseconda dunque questa impostazione con l'atteggiamento esposto di chi, obtorto collo, intende sì cedere il Milan, ma vorrebbe farlo in favore di un soggetto domestico, la cui acclarata inesistenza, certo a lui non imputabile, lo costringerebbe infine a valutare altre soluzioni. Il solito modo, obliquo, ammiccante ed allusivo di placare i morsi dello stomaco e di fugare i rimorsi dello spirito. Molto berlusconiano, egocentrico, autoreferenziale, indulgente con le proprie debolezze, e soprattutto schiettamente politico. Detto questo, i fatti, cioè le trattative per vendere il Milan, si cancellano in altro modo: si chiama la controparte, si esprime rincrescimento per tutto quanto di vano è stato fatto, e si decide di interrompere per sempre il dialogo negoziale. Facilissimo, due-tre telefonate, a cercare infine l’abbraccio dei pochi laudatores come se un domani non ci fosse. Detto questo, può accadere? E Berlusconi lo può davvero volere, se fino a qualche ora prima ha vigilato costantemente sulla prosecuzione della trattativa? Dubbi, nel solito giro di chiacchere.