Adani:"De Zerbi mi vorrebbe con sè. Mai più con Vieri".

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Le solite follie di Adani, questa volta al CorSera.

Lele Adani, partiamo dalla sua frase sul «pranzo al sacco» urlata per spiegare il gol vittoria di Tonali contro Israele: come le è venuto?
«È una delle cose più spontanee che abbia mai detto. Se poi mi chiede come mi è venuto in mente non glielo so dire, ma fa parte del gergo dei miei amici del paese, per sottolineare un errore grossolano, quello della difesa israeliana. In una partita assurda».
Ha ricevuto tante critiche?
«Al contrario: ho sentito tanta condivisione. Gli odiatori dietro alla tastiera fanno notizia, ma gli amatori sono tanti e li trovo per strada: sani e puri, dai ragazzini agli ottantenni».


Questa Nazionale ha il passo per andare al Mondiale?
«Ha lo spirito per farlo: lo vuole fortemente e io credo che andremo. Però abbiamo delle lacune e Gattuso ha già provato a far qualcosa per colmarle».
Ma perché la Nazionale fa tutta questa fatica?
«Tutte le Nazionali si evolvono, i metodi per formare e crescere i giocatori ci sono ovunque e la Norvegia che è la nostra avversaria diretta ne è la riprova. Nelle stanze dei bottoni ce la raccontiamo che siamo ancora i più bravi a formare, ma non è così: ci siamo fermati. La Croazia ha meno abitanti della Sicilia, il Portogallo ne ha quanti la Lombardia. Ma sono molto più credibili».
La serie A è il campionato al mondo con la più alta percentuale di allenatori ex calciatori. Non è che manca un po’ di contaminazione derivata da percorsi diversi, come i tedeschi Tuchel e Nagelsmann, o il nostro Farioli che dall’Ajax ora è passato al Porto?
«Gli allenatori citati non sarebbero nemmeno entrati al corso di Coverciano, per problemi di punteggio. Abbiamo dei criteri, non solo nel calcio, che non ti ritengono adeguato in partenza. E diventano delle barriere. Anche per questo l’Italia sembra sempre indietro: il cambiamento spaventa».
Questo riguarda anche l’impiego dei giovani italiani?
«Certo. Le Nazionali giovanili arrivano spesso in fondo, ma poi quelli di Spagna, Portogallo o Germania fanno i titolari nel calcio vero. È una questione culturale, il sistema fa fatica ad accettare i giovani. Camarda è un esempio: tutti devono essere forti a difenderlo come alternativa per il Milan. E invece va al Lecce. Siamo tutti complici».
Pio Esposito ha tre anni in più. Può resistere agli urti?
«Ha forza, è evoluto calcisticamente e si è guadagnato la conferma. Ma dobbiamo difenderlo se non segna per dieci partite, anche se all’Inter è dura: queste dieci partite di crescita potrebbero servire al Mondiale».
La predominanza degli stranieri è causa o effetto di un problema?
«Se un giocatore è forte ed è un’operazione sana a tutti i livelli, allora conviene: l’Atalanta in questo è stata un modello. Ma se mancano sinergie e tutto si riduce a operazioni commerciali per guadagnarci, allora la crescita non c’è».
Sta accadendo questo?
«Ormai nel nostro Paese tutti sanno che ci sono quattro-cinque intermediari che hanno in mano il giochino del calcio. E non per forza conoscono i calciatori e le esigenze degli allenatori. Però bisogna passare da loro e alla fine conta solo il lucro: so anch’io che il calcio è un business ma così si perde valore».
Sono tre mesi che parla bene di Allegri: è la dimostrazione che la sua posizione nei confronti di Max non era ideologica?
«La battaglia ideologica la crea chi non ha argomenti. Chi ha argomenti guarda il gioco. E io vedo partite fatte bene, percorsi diversi, tendenze invertite. La strada c’è ed è una cosa bella per tutti».
Forse questo Milan è costruito meglio della ultima Juve di Allegri?
«Quella squadra i giocatori buoni li aveva: si può sempre perdere, intendiamoci, ma se non fai un calcio evoluto, io non posso far passare per buono ciò che non lo è. E il Milan di Udine si vede che è un’altra cosa».

Le sue pulsioni da allenatore ci sono ancora?
«No e non mi sono mai pentito. Eppure c’è un mio amico allenatore che mi ha detto che è disposto a ridursi lo stipendio per avermi con lui».
Non è una mancanza di coraggio la sua?
«Assolutamente no, poi con tutti gli insulti che prendo da commentatore, coraggio ne ho (ride ndr). La passione per la comunicazione è fortissima».
Quindi in panchina mai?
«Forse in un ruolo nuovo, che unisca la parte calcistica a quella comunicativa, operando per un allenatore o una squadra, per arrivare più diretti alla gente: c’è ancora distacco fra chi fa il calcio vero e chi lo comunica. C’è una barriera».
Ma voi ex calciatori opinionisti non ve la tirate troppo, non avete troppo peso?
«Dipende da come vivi questa passione-professione. Se tu la senti come una vocazione ti meriti il rispetto: ma devi approfondire, saper vivere nei dissensi, non devi essere arido, devi esporti. Dipende come uno fa il mestiere».
Il passaggio dalla tv digitale al mondo Rai in questi tre anni come è stato?
«Ho due direzioni: una con “Viva el Futbol” sul digitale e una sulla Rai. Il mio spirito è lo stesso, magari può cambiare la forma. In Rai mi trovo benissimo, ho libertà e sapete cosa vi dico? Sento la responsabilità di parlare al Paese. E la Domenica Sportiva si è evoluta molto».
Con Panatta c’è feeling?
«Tantissimo. Siamo di fronte e ci basta uno sguardo per capire che direzione prendere: è bellissima questa intesa e lui è il miglior talent con cui mi sono trovato a lavorare. Fatalità non c’entra nulla col calcio...».
Nel dibattito su chi sia stato migliore tra Maradona e Messi su cosa ci dobbiamo concentrare?
«Secondo me sul fisico: in particolare sull’elasticità incredibile che aveva Diego, contrapposta alla rigidità di Messi. Certe cose che faceva Diego con il corpo e il pallone, Leo non le può fare».
Giusto il Pallone d’oro a Dembélé o meritava Lamine Yamal?
«Dico Dembélé: si premia la stagione, non il talento in generale».
L’allenatore che comunica meglio qual è?
«Quello che può lasciare un’impronta e scrostare vecchie abitudini è Cesc Fabregas, che ha una comunicazione molto calcistica e non arretra su quello in cui crede: viene da un percorso e da una società non italiana che spende bene e che come lui se ne sbatte di tutto quello che dicono gli italiani».
La comunicazione di Chivu è cominciata?
«È in una fase di mezzo: fa intravvedere che è retto, che ha idee, ma ancora non sa come imporsi per far vedere chi è veramente. Sente di poterci stare, ma ancora deve fare il salto. E lo vuole fare rispettando chi l’ha scelto, con fiducia forse eccessiva, e chi gli ha lasciato la squadra. Non lo vedo dubbioso, lo vedo riflessivo. Ma all’Inter non c’è troppo tempo».
Conte non si lamenta troppo?
«Non sono in disaccordo con lui: la squadra è stata allungata, non così rafforzata».
Lui ha qualcosa in più degli altri?
«Ha un rispetto unico del lavoro. Nessuno chiede tanto a sé stesso, allo staff e ai calciatori, come fa lui. Interiormente è quasi una missione. E poi si sottolinea troppo poco la sua evoluzione negli ultimi due anni: ha studiato tantissimo ed è tornato a sentirsi nei top 5 al mondo».


Si sono riuniti gli Oasis: lo faranno anche Adani e Vieri?
«Assolutamente no».
L’allenatore che si taglierebbe lo stipendio per lavorare con lei è De Zerbi?
«Sì».
Ha appena battuto col Marsiglia il Psg e ha detto che lui «è contro il potere»: allenerà mai una grandissima squadra con questo atteggiamento?
«In Francia c’è troppa disparità di mezzi. Ma la natura di Roberto è stare con quelli un po’ più deboli e trovare il piacere nel conflitto coi più forti. Ma allenerà una grande squadra, altrimenti sarebbe uno spreco. Se Silvio Baldini va all’Under 21 è la prova tangibile che i sogni si realizzano: è stata una scelta perfetta, stupenda, quella di cui ha bisogno un Paese».
Sarebbe uno spreco anche se Adani non allenasse?
«Non allenerò: romperò ancora le scatole parlando».

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fabri47

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Bene, speriamo di togliercelo dal commento Rai.
 
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