Confalonieri: "Berlusconi vuole riportare in alto il Milan..."

tifoso evorutto

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Nella stessa intervista al corriere Confalonieri svela un importante retroscena su Adriano Galliani, che sconsigliava vivamente Berlusconi di prendere il Milan, causa i costi di bilancio.
Se a ciò aggiungiamo le voci di Juventinità dell'antennista, comprendiamo come il suo indubbio e vistoso tifo dagli spalti, non sia un fatto di cuore, ma il naturale atteggiamento verso la propria azienda di collaborazione.
 

Il Re dell'Est

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Ecco l'intervista integrale pubblicata da acmilan.com:

"Solo se si appartiene alla tribù dei tifosi lo si può capire: il vero welfare è la domenica sera, se la tua squadra ha vinto. E in trent’anni quanto welfare ha dato Silvio Berlusconi ai milanisti". Cinque Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, un Mondiale per club, cinque Supercoppe Europee, otto scudetti, una Coppa Italia, sei Supercoppe di Lega. Questa è la storia di una visione, il resoconto di un’epopea vista da vicino. E questo è Fedele Confalonieri, che lascia la poltrona del Biscione e torna sui gradoni del vecchio stadio di San Siro insieme all’amico di una vita. "Non è in politica che si vede il vero Berlusconi. Il Berlusconi genuino non è quello che si trucca per la tv e che si muove nel Palazzo dove ci sono regole che mai ha compreso appieno. Il Berlusconi autentico si vede nel privato, nell’impresa. E nel calcio".

"Certo il calcio è stato utile alla politica e ha inciso, ma si è rivelato anche un’arma a doppio taglio. Quando vendette Kakà, migliaia di elettori scrissero il nome del giocatore sulla scheda per dire a Berlusconi: “Hai fatto lo stemegna, lo sparagnino? E allora ti puniamo”. Ma non è per la politica che Silvio prese il Milan: di questo sono testimone. Ricordo che il giorno in cui ci anticipò di voler acquistare il club, da tifoso rossonero mi dissi subito d’accordo. Adriano Galliani, che conosceva il mondo del calcio, temeva invece l’opacità dei conti societari e cercava di dissuaderlo".

"Ma lui non poteva capire. Con Silvio eravamo cresciuti nel mito di Gren, Nordhal e Liedholm. Insieme, andavamo a vederli a San Siro. Era il rito della domenica, ed era rituale che dopo la partita si litigasse. Anche di recente ci è capitato di discutere parlando della squadra, che non andrà benissimo ma può ancora centrare obiettivi importanti. Trenta anni fa invece il Milan era in disarmo, e non se ne poteva più degli sfottò di quel simpatico nemico che fu Peppino Prisco
, lo storico vice presidente dell’Inter: “Il Milan — diceva — è andato in serie B due volte: una gratis e una a pagamento”. Chi non è tifoso non può capire quanto ci bruciasse. E io già a casa dovevo sopportare un padre e un fratello maggiore che erano nerazzurri".

"Il calcio è un credo, non è una passione".
La passione ha portato Confalonieri a prendere il diploma di pianoforte al Conservatorio, il credo lo ha spinto "a portare mia moglie al Santiago Bernabeu in viaggio di nozze. C’era Spagna-Inghilterra a Madrid, finì 3-0. Una favola quello stadio. Ma la gradinata di San Siro era un’altra cosa per me e per Silvio, che già prima di comprare il Milan aveva tentato di aiutarlo. Ai tempi della presidenza di Felice Colombo, quella dell’ultimo scudetto di Gianni Rivera, Berlusconi si fece avanti con la dirigenza dell’epoca: “Non chiedo nulla, metto a disposizione i soldi per comprare quel giovane del Lanerossi Vicenza”. Era Paolo Rossi. Non se ne fece niente. Anni dopo Colombo spiegò il motivo del rifiuto: “Con Rivera in campo da una parte e Berlusconi dall’altra, sarei rimasto schiacciato dalle loro personalità”.

"Cosa doveva saperne Dario Fo, che insieme ad altri a Milano, durante la trattativa societaria, criticava Berlusconi. Diceva di vederlo volteggiare sul club come un avvoltoio. Già allora si manifestava quel fenomeno che avremmo vissuto anni dopo. Lasciamo stare. Tornavamo da St. Moritz in aereo quando Silvio ci disse di voler ufficializzare l’acquisto del Milan. Con Marcello Dell’Utri ci abbracciamo e urlammo come fosse stato un gol. Che tempi... Il pomeriggio del 20 Febbraio del 1986 firmammo le carte per il passaggio di proprietà nello studio di un commercialista interista, Pompeo Locatelli. La sera volammo a Parigi per l’inaugurazione della Cinq".

"Ecco, nel calcio Berlusconi si è applicato come nella tv, con le stesse strategie. Portò i dirigenti della squadra in ritiro al Castello di Pomerio e spiegò il suo piano: “Dovremo diventare il club più forte del mondo e giocare il calcio più bello del mondo”. Sotto il profilo organizzativo anticipò i tempi: fu lui a introdurre il sistema delle poltroncine numerate negli stadi. Con i giocatori agiva come con le dive dello spettacolo: trattava di persona. Fu così per il suo primo colpo, Roberto Donadoni, dall’Atalanta. Allora non era mica facile. Nel calcio vigeva una sorta di ius primae noctis juventina. Sì, insomma, Gianni Agnelli aveva il diritto della prima scelta. Ma Berlusconi prese Donadoni. Il presidente dell’Atalanta, Achille Bortolotti, gli spiegò perché l’aveva preferito: “Lo cedo a lei perché lei mi ha invitato a cena a casa sua”. Fece lo stesso con Ruud Gullit, andò a parlare persino con i vertici della Philips: “Ditemi quanto, tanto con lui riempirò San Siro”.

"Ma la prima grande intuizione fu Arrigo Sacchi. Noi in panchina all’inizio avevamo Nils Liedholm, il barone. Dopo aver perso con il Parma di Sacchi, appena promosso in serie A, Berlusconi decise a chi avrebbe affidato la squadra del futuro. È che Silvio si picca di essere un grande allenatore e sostiene che se avesse tempo lo dimostrerebbe. Diciamo che ne capisce molto, anche se nel calcio tutto è dimostrabile e tutto è sindacabile. Ma ha fiuto: dopo Sacchi prese Fabio Capello. Dissero che aveva assunto il suo maggiordomo. Si è visto che non era così. Il fatto è che Sacchi voleva far vendere Marco Van Basten a Berlusconi. Ero con loro a vedere una partita dell’Olanda in cui il ragazzo non era al massimo. Sacchi, che era seduto in mezzo, continuava a dire: ”Dottore guardi, guardi come è svogliato”. Era un allenatore tosto, voleva che i calciatori corressero e facessero pressing per novanta minuti. Capello, che era stato calciatore, li fece correre di meno. Ma vinse anche lui tanto. E dopo di lui vinse anche Carlo Ancelotti. Ma sì che gli schemi erano i suoi...".

"E c’è anche un altro mito da sfatare: Berlusconi è uno attento ai soldi, altro che uno spendaccione. E infatti noi, suoi amici ma anche tifosi, alle volte abbiamo dovuto provocarlo. Per comprare Alessandro Nesta, insieme a Galliani facemmo come nel film di Hitchcock “La congiura degli innocenti”. Dopo una partita di qualificazione alla Champions complottammo per convincere Silvio. Lui era all’estero per un vertice politico. Gli raccontammo che il Milan aveva preso gol su rimessa laterale, che la difesa andava rinforzata se volevamo vincere ancora. Così aprì il portafogli e prese Nesta dalla Lazio".


Se il Cavaliere è stato l’epicentro di tutto, allora non si capisce come mai, lungo questi trenta anni, si è parlato del Milan di Sacchi, del Milan di Capello, del Milan di Ancelotti ma mai del Milan di Berlusconi, che pure ha vinto come nessun altro presidente di club nella storia del calcio mondiale. "È l’Italia. O meglio, una certa Italia: quella di chi gli ruga, di chi fatica a riconoscere il successo, che da noi è visto nella migliore delle ipotesi con sospetto. Sarà retaggio della cultura comunista e anche di quella cattolica. Lo dicevo a mia madre, che era una fervente religiosa: “Mamma, tu non sei povera e anche se preghi non ti faranno passare per la cruna dell’ago”. Negli Stati Uniti invece anche a un Donald Trump, che non mi piace affatto, riconoscono il successo. E Berlusconi un po’ se ne rammarica e allora fa teatro, come Eduardo De Filippo in Filomena Marturano".

"Ma la tribù dei tifosi, di qualunque squadra, gli tributa il dovuto e lui se ne compiace. In questo è popolano, perciò la gente lo sente vicino. Diversamente da Agnelli, che vinceva ed era popolare, ma era avvertito con distacco. Non credo che all’Avvocato sarà mai capitato ciò che toccò a Berlusconi, il giorno in cui il suo Milan vinse il primo scudetto nel 1988. Accadde in trasferta, a Como. Fuori dallo stadio un tifoso saltò sul cofano della sua auto e gli gridò: “Silvio, bella figa”. Per Berlusconi è una delle cose più belle che gli abbiano mai detto".

L’obiettivo del «grande Milan» era chiaro ma l’epopea fu anche figlia del «fattore C», come poi riconobbe il Cavaliere: la nebbia di Belgrado che copre l’imminente eliminazione dalla Champions per mano della Stella Rossa, la partita rigiocata il giorno dopo, i rigori che ribaltano l’esito della sfida. "Fu un segno del destino, perché quella sera di novembre del 1988 ebbe inizio l’età dell’oro e delle coppe. Forse fu quel ricordo a indurre Galliani al famoso gesto di Marsiglia», quando il dirigente del Milan, a pochi minuti dalla fine, ritirò la squadra che stava perdendo con l’Olympique, perché si era fulminata una luce dei riflettori. «Adriano deve averlo interpretato come un altro segno del destino e...». È l’unico errore che Confalonieri accetta di addebitargli, perché, per il resto, "per me Galliani è il più grande dirigente di calcio che ci sia in Italia e forse in Europa. È il nostro Moshe Dayan, un grande generale, che rischiò persino le botte in giro per il mondo pur di acquistare giocatori da Milan. Non è pensabile che ora venga messo sotto esame".

Più che sotto esame oggi è sotto accusa. "A parte il fatto che nel frattempo abbiamo vinto anche con Zaccheroni e Allegri, io stesso passerei per un grande allenatore se mi dessero in squadra Messi, Neymar e Suarez. Invece sappiamo che il Milan oggi deve fare i conti con i conti. Perciò cosa si può dire di Mihajlovic? E soprattutto cosa si può dire di Galliani? Forse si potrebbe dire che c’è qualcosa di king Lear». L’evocazione del dramma scespiriano e del conflitto con le figlie del re è una rappresentazione che Confalonieri apparecchia e smonta in un istante. «Silvio è deciso ad andare avanti. Con mister Bee o con un mister C, lui vuole tornare in alto con il Milan. Le sue arrabbiature, le sue ingerenze stanno a dimostrarlo".

Berlusconi è visto come l’epigono di una tradizione che nel calcio va scomparendo, "appartiene all’epoca dei presidenti-mecenate, di quelli che lo fanno per amore dei colori e della città. Sull’altro lato del Naviglio i Moratti, padre e figlio, hanno reso gloriosa la storia dell’Inter. Persone squisite, corrette, sportive». Ricordo di ciò che non c’è più. «Ora è il tempo degli sceicchi e dei magnati d’Oriente. E sia chiaro, se arrivassero al Milan ne sarei lieto, a patto che la guida resti sempre nelle mani di Berlusconi. E comunque non si vince solo con gli sceicchi. La Juventus per esempio va fortissimo. E da dirigente del gruppo Mediaset, he ha i diritti televisivi della Champions, mi auguro che i bianconeri arrivino in finale come l’anno scorso...". Che fa, gufa? "Al tifoso è concessa la licenza. Quelli della tribù capiranno. Perché il calcio ha le sue regole. Esclusa la violenza, che va condannata, isolata e repressa, ci sta la gufata e ci sta anche il turpiloquio. Perciò mi viene da ridere se penso al polverone che si è sollevato dopo lo scontro verbale tra Sarri e Mancini. Sui gradoni di San Siro io e Silvio quante ne abbiamo dette...".

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Casnop

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Ecco l'intervista integrale pubblicata da acmilan.com:

"Solo se si appartiene alla tribù dei tifosi lo si può capire: il vero welfare è la domenica sera, se la tua squadra ha vinto. E in trent’anni quanto welfare ha dato Silvio Berlusconi ai milanisti". Cinque Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, un Mondiale per club, cinque Supercoppe Europee, otto scudetti, una Coppa Italia, sei Supercoppe di Lega. Questa è la storia di una visione, il resoconto di un’epopea vista da vicino. E questo è Fedele Confalonieri, che lascia la poltrona del Biscione e torna sui gradoni del vecchio stadio di San Siro insieme all’amico di una vita. "Non è in politica che si vede il vero Berlusconi. Il Berlusconi genuino non è quello che si trucca per la tv e che si muove nel Palazzo dove ci sono regole che mai ha compreso appieno. Il Berlusconi autentico si vede nel privato, nell’impresa. E nel calcio".

"Certo il calcio è stato utile alla politica e ha inciso, ma si è rivelato anche un’arma a doppio taglio. Quando vendette Kakà, migliaia di elettori scrissero il nome del giocatore sulla scheda per dire a Berlusconi: “Hai fatto lo stemegna, lo sparagnino? E allora ti puniamo”. Ma non è per la politica che Silvio prese il Milan: di questo sono testimone. Ricordo che il giorno in cui ci anticipò di voler acquistare il club, da tifoso rossonero mi dissi subito d’accordo. Adriano Galliani, che conosceva il mondo del calcio, temeva invece l’opacità dei conti societari e cercava di dissuaderlo".

"Ma lui non poteva capire. Con Silvio eravamo cresciuti nel mito di Gren, Nordhal e Liedholm. Insieme, andavamo a vederli a San Siro. Era il rito della domenica, ed era rituale che dopo la partita si litigasse. Anche di recente ci è capitato di discutere parlando della squadra, che non andrà benissimo ma può ancora centrare obiettivi importanti. Trenta anni fa invece il Milan era in disarmo, e non se ne poteva più degli sfottò di quel simpatico nemico che fu Peppino Prisco
, lo storico vice presidente dell’Inter: “Il Milan — diceva — è andato in serie B due volte: una gratis e una a pagamento”. Chi non è tifoso non può capire quanto ci bruciasse. E io già a casa dovevo sopportare un padre e un fratello maggiore che erano nerazzurri".

"Il calcio è un credo, non è una passione".
La passione ha portato Confalonieri a prendere il diploma di pianoforte al Conservatorio, il credo lo ha spinto "a portare mia moglie al Santiago Bernabeu in viaggio di nozze. C’era Spagna-Inghilterra a Madrid, finì 3-0. Una favola quello stadio. Ma la gradinata di San Siro era un’altra cosa per me e per Silvio, che già prima di comprare il Milan aveva tentato di aiutarlo. Ai tempi della presidenza di Felice Colombo, quella dell’ultimo scudetto di Gianni Rivera, Berlusconi si fece avanti con la dirigenza dell’epoca: “Non chiedo nulla, metto a disposizione i soldi per comprare quel giovane del Lanerossi Vicenza”. Era Paolo Rossi. Non se ne fece niente. Anni dopo Colombo spiegò il motivo del rifiuto: “Con Rivera in campo da una parte e Berlusconi dall’altra, sarei rimasto schiacciato dalle loro personalità”.

"Cosa doveva saperne Dario Fo, che insieme ad altri a Milano, durante la trattativa societaria, criticava Berlusconi. Diceva di vederlo volteggiare sul club come un avvoltoio. Già allora si manifestava quel fenomeno che avremmo vissuto anni dopo. Lasciamo stare. Tornavamo da St. Moritz in aereo quando Silvio ci disse di voler ufficializzare l’acquisto del Milan. Con Marcello Dell’Utri ci abbracciamo e urlammo come fosse stato un gol. Che tempi... Il pomeriggio del 20 Febbraio del 1986 firmammo le carte per il passaggio di proprietà nello studio di un commercialista interista, Pompeo Locatelli. La sera volammo a Parigi per l’inaugurazione della Cinq".

"Ecco, nel calcio Berlusconi si è applicato come nella tv, con le stesse strategie. Portò i dirigenti della squadra in ritiro al Castello di Pomerio e spiegò il suo piano: “Dovremo diventare il club più forte del mondo e giocare il calcio più bello del mondo”. Sotto il profilo organizzativo anticipò i tempi: fu lui a introdurre il sistema delle poltroncine numerate negli stadi. Con i giocatori agiva come con le dive dello spettacolo: trattava di persona. Fu così per il suo primo colpo, Roberto Donadoni, dall’Atalanta. Allora non era mica facile. Nel calcio vigeva una sorta di ius primae noctis juventina. Sì, insomma, Gianni Agnelli aveva il diritto della prima scelta. Ma Berlusconi prese Donadoni. Il presidente dell’Atalanta, Achille Bortolotti, gli spiegò perché l’aveva preferito: “Lo cedo a lei perché lei mi ha invitato a cena a casa sua”. Fece lo stesso con Ruud Gullit, andò a parlare persino con i vertici della Philips: “Ditemi quanto, tanto con lui riempirò San Siro”.

"Ma la prima grande intuizione fu Arrigo Sacchi. Noi in panchina all’inizio avevamo Nils Liedholm, il barone. Dopo aver perso con il Parma di Sacchi, appena promosso in serie A, Berlusconi decise a chi avrebbe affidato la squadra del futuro. È che Silvio si picca di essere un grande allenatore e sostiene che se avesse tempo lo dimostrerebbe. Diciamo che ne capisce molto, anche se nel calcio tutto è dimostrabile e tutto è sindacabile. Ma ha fiuto: dopo Sacchi prese Fabio Capello. Dissero che aveva assunto il suo maggiordomo. Si è visto che non era così. Il fatto è che Sacchi voleva far vendere Marco Van Basten a Berlusconi. Ero con loro a vedere una partita dell’Olanda in cui il ragazzo non era al massimo. Sacchi, che era seduto in mezzo, continuava a dire: ”Dottore guardi, guardi come è svogliato”. Era un allenatore tosto, voleva che i calciatori corressero e facessero pressing per novanta minuti. Capello, che era stato calciatore, li fece correre di meno. Ma vinse anche lui tanto. E dopo di lui vinse anche Carlo Ancelotti. Ma sì che gli schemi erano i suoi...".

"E c’è anche un altro mito da sfatare: Berlusconi è uno attento ai soldi, altro che uno spendaccione. E infatti noi, suoi amici ma anche tifosi, alle volte abbiamo dovuto provocarlo. Per comprare Alessandro Nesta, insieme a Galliani facemmo come nel film di Hitchcock “La congiura degli innocenti”. Dopo una partita di qualificazione alla Champions complottammo per convincere Silvio. Lui era all’estero per un vertice politico. Gli raccontammo che il Milan aveva preso gol su rimessa laterale, che la difesa andava rinforzata se volevamo vincere ancora. Così aprì il portafogli e prese Nesta dalla Lazio".


Se il Cavaliere è stato l’epicentro di tutto, allora non si capisce come mai, lungo questi trenta anni, si è parlato del Milan di Sacchi, del Milan di Capello, del Milan di Ancelotti ma mai del Milan di Berlusconi, che pure ha vinto come nessun altro presidente di club nella storia del calcio mondiale. "È l’Italia. O meglio, una certa Italia: quella di chi gli ruga, di chi fatica a riconoscere il successo, che da noi è visto nella migliore delle ipotesi con sospetto. Sarà retaggio della cultura comunista e anche di quella cattolica. Lo dicevo a mia madre, che era una fervente religiosa: “Mamma, tu non sei povera e anche se preghi non ti faranno passare per la cruna dell’ago”. Negli Stati Uniti invece anche a un Donald Trump, che non mi piace affatto, riconoscono il successo. E Berlusconi un po’ se ne rammarica e allora fa teatro, come Eduardo De Filippo in Filomena Marturano".

"Ma la tribù dei tifosi, di qualunque squadra, gli tributa il dovuto e lui se ne compiace. In questo è popolano, perciò la gente lo sente vicino. Diversamente da Agnelli, che vinceva ed era popolare, ma era avvertito con distacco. Non credo che all’Avvocato sarà mai capitato ciò che toccò a Berlusconi, il giorno in cui il suo Milan vinse il primo scudetto nel 1988. Accadde in trasferta, a Como. Fuori dallo stadio un tifoso saltò sul cofano della sua auto e gli gridò: “Silvio, bella figa”. Per Berlusconi è una delle cose più belle che gli abbiano mai detto".

L’obiettivo del «grande Milan» era chiaro ma l’epopea fu anche figlia del «fattore C», come poi riconobbe il Cavaliere: la nebbia di Belgrado che copre l’imminente eliminazione dalla Champions per mano della Stella Rossa, la partita rigiocata il giorno dopo, i rigori che ribaltano l’esito della sfida. "Fu un segno del destino, perché quella sera di novembre del 1988 ebbe inizio l’età dell’oro e delle coppe. Forse fu quel ricordo a indurre Galliani al famoso gesto di Marsiglia», quando il dirigente del Milan, a pochi minuti dalla fine, ritirò la squadra che stava perdendo con l’Olympique, perché si era fulminata una luce dei riflettori. «Adriano deve averlo interpretato come un altro segno del destino e...». È l’unico errore che Confalonieri accetta di addebitargli, perché, per il resto, "per me Galliani è il più grande dirigente di calcio che ci sia in Italia e forse in Europa. È il nostro Moshe Dayan, un grande generale, che rischiò persino le botte in giro per il mondo pur di acquistare giocatori da Milan. Non è pensabile che ora venga messo sotto esame".

Più che sotto esame oggi è sotto accusa. "A parte il fatto che nel frattempo abbiamo vinto anche con Zaccheroni e Allegri, io stesso passerei per un grande allenatore se mi dessero in squadra Messi, Neymar e Suarez. Invece sappiamo che il Milan oggi deve fare i conti con i conti. Perciò cosa si può dire di Mihajlovic? E soprattutto cosa si può dire di Galliani? Forse si potrebbe dire che c’è qualcosa di king Lear». L’evocazione del dramma scespiriano e del conflitto con le figlie del re è una rappresentazione che Confalonieri apparecchia e smonta in un istante. «Silvio è deciso ad andare avanti. Con mister Bee o con un mister C, lui vuole tornare in alto con il Milan. Le sue arrabbiature, le sue ingerenze stanno a dimostrarlo".

Berlusconi è visto come l’epigono di una tradizione che nel calcio va scomparendo, "appartiene all’epoca dei presidenti-mecenate, di quelli che lo fanno per amore dei colori e della città. Sull’altro lato del Naviglio i Moratti, padre e figlio, hanno reso gloriosa la storia dell’Inter. Persone squisite, corrette, sportive». Ricordo di ciò che non c’è più. «Ora è il tempo degli sceicchi e dei magnati d’Oriente. E sia chiaro, se arrivassero al Milan ne sarei lieto, a patto che la guida resti sempre nelle mani di Berlusconi. E comunque non si vince solo con gli sceicchi. La Juventus per esempio va fortissimo. E da dirigente del gruppo Mediaset, he ha i diritti televisivi della Champions, mi auguro che i bianconeri arrivino in finale come l’anno scorso...". Che fa, gufa? "Al tifoso è concessa la licenza. Quelli della tribù capiranno. Perché il calcio ha le sue regole. Esclusa la violenza, che va condannata, isolata e repressa, ci sta la gufata e ci sta anche il turpiloquio. Perciò mi viene da ridere se penso al polverone che si è sollevato dopo lo scontro verbale tra Sarri e Mancini. Sui gradoni di San Siro io e Silvio quante ne abbiamo dette...".

Fidel, mi piace ricordarti alle riunioni per il grappino del lunedì sera con giovannibrerafucarlo. Facevi meglio figura, che adesso da astemio. :asd:
 

Chrissonero

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Ecco l'intervista integrale pubblicata da acmilan.com:

"Solo se si appartiene alla tribù dei tifosi lo si può capire: il vero welfare è la domenica sera, se la tua squadra ha vinto. E in trent’anni quanto welfare ha dato Silvio Berlusconi ai milanisti". Cinque Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, un Mondiale per club, cinque Supercoppe Europee, otto scudetti, una Coppa Italia, sei Supercoppe di Lega. Questa è la storia di una visione, il resoconto di un’epopea vista da vicino. E questo è Fedele Confalonieri, che lascia la poltrona del Biscione e torna sui gradoni del vecchio stadio di San Siro insieme all’amico di una vita. "Non è in politica che si vede il vero Berlusconi. Il Berlusconi genuino non è quello che si trucca per la tv e che si muove nel Palazzo dove ci sono regole che mai ha compreso appieno. Il Berlusconi autentico si vede nel privato, nell’impresa. E nel calcio".

"Certo il calcio è stato utile alla politica e ha inciso, ma si è rivelato anche un’arma a doppio taglio. Quando vendette Kakà, migliaia di elettori scrissero il nome del giocatore sulla scheda per dire a Berlusconi: “Hai fatto lo stemegna, lo sparagnino? E allora ti puniamo”. Ma non è per la politica che Silvio prese il Milan: di questo sono testimone. Ricordo che il giorno in cui ci anticipò di voler acquistare il club, da tifoso rossonero mi dissi subito d’accordo. Adriano Galliani, che conosceva il mondo del calcio, temeva invece l’opacità dei conti societari e cercava di dissuaderlo".

"Ma lui non poteva capire. Con Silvio eravamo cresciuti nel mito di Gren, Nordhal e Liedholm. Insieme, andavamo a vederli a San Siro. Era il rito della domenica, ed era rituale che dopo la partita si litigasse. Anche di recente ci è capitato di discutere parlando della squadra, che non andrà benissimo ma può ancora centrare obiettivi importanti. Trenta anni fa invece il Milan era in disarmo, e non se ne poteva più degli sfottò di quel simpatico nemico che fu Peppino Prisco
, lo storico vice presidente dell’Inter: “Il Milan — diceva — è andato in serie B due volte: una gratis e una a pagamento”. Chi non è tifoso non può capire quanto ci bruciasse. E io già a casa dovevo sopportare un padre e un fratello maggiore che erano nerazzurri".

"Il calcio è un credo, non è una passione".
La passione ha portato Confalonieri a prendere il diploma di pianoforte al Conservatorio, il credo lo ha spinto "a portare mia moglie al Santiago Bernabeu in viaggio di nozze. C’era Spagna-Inghilterra a Madrid, finì 3-0. Una favola quello stadio. Ma la gradinata di San Siro era un’altra cosa per me e per Silvio, che già prima di comprare il Milan aveva tentato di aiutarlo. Ai tempi della presidenza di Felice Colombo, quella dell’ultimo scudetto di Gianni Rivera, Berlusconi si fece avanti con la dirigenza dell’epoca: “Non chiedo nulla, metto a disposizione i soldi per comprare quel giovane del Lanerossi Vicenza”. Era Paolo Rossi. Non se ne fece niente. Anni dopo Colombo spiegò il motivo del rifiuto: “Con Rivera in campo da una parte e Berlusconi dall’altra, sarei rimasto schiacciato dalle loro personalità”.

"Cosa doveva saperne Dario Fo, che insieme ad altri a Milano, durante la trattativa societaria, criticava Berlusconi. Diceva di vederlo volteggiare sul club come un avvoltoio. Già allora si manifestava quel fenomeno che avremmo vissuto anni dopo. Lasciamo stare. Tornavamo da St. Moritz in aereo quando Silvio ci disse di voler ufficializzare l’acquisto del Milan. Con Marcello Dell’Utri ci abbracciamo e urlammo come fosse stato un gol. Che tempi... Il pomeriggio del 20 Febbraio del 1986 firmammo le carte per il passaggio di proprietà nello studio di un commercialista interista, Pompeo Locatelli. La sera volammo a Parigi per l’inaugurazione della Cinq".

"Ecco, nel calcio Berlusconi si è applicato come nella tv, con le stesse strategie. Portò i dirigenti della squadra in ritiro al Castello di Pomerio e spiegò il suo piano: “Dovremo diventare il club più forte del mondo e giocare il calcio più bello del mondo”. Sotto il profilo organizzativo anticipò i tempi: fu lui a introdurre il sistema delle poltroncine numerate negli stadi. Con i giocatori agiva come con le dive dello spettacolo: trattava di persona. Fu così per il suo primo colpo, Roberto Donadoni, dall’Atalanta. Allora non era mica facile. Nel calcio vigeva una sorta di ius primae noctis juventina. Sì, insomma, Gianni Agnelli aveva il diritto della prima scelta. Ma Berlusconi prese Donadoni. Il presidente dell’Atalanta, Achille Bortolotti, gli spiegò perché l’aveva preferito: “Lo cedo a lei perché lei mi ha invitato a cena a casa sua”. Fece lo stesso con Ruud Gullit, andò a parlare persino con i vertici della Philips: “Ditemi quanto, tanto con lui riempirò San Siro”.

"Ma la prima grande intuizione fu Arrigo Sacchi. Noi in panchina all’inizio avevamo Nils Liedholm, il barone. Dopo aver perso con il Parma di Sacchi, appena promosso in serie A, Berlusconi decise a chi avrebbe affidato la squadra del futuro. È che Silvio si picca di essere un grande allenatore e sostiene che se avesse tempo lo dimostrerebbe. Diciamo che ne capisce molto, anche se nel calcio tutto è dimostrabile e tutto è sindacabile. Ma ha fiuto: dopo Sacchi prese Fabio Capello. Dissero che aveva assunto il suo maggiordomo. Si è visto che non era così. Il fatto è che Sacchi voleva far vendere Marco Van Basten a Berlusconi. Ero con loro a vedere una partita dell’Olanda in cui il ragazzo non era al massimo. Sacchi, che era seduto in mezzo, continuava a dire: ”Dottore guardi, guardi come è svogliato”. Era un allenatore tosto, voleva che i calciatori corressero e facessero pressing per novanta minuti. Capello, che era stato calciatore, li fece correre di meno. Ma vinse anche lui tanto. E dopo di lui vinse anche Carlo Ancelotti. Ma sì che gli schemi erano i suoi...".

"E c’è anche un altro mito da sfatare: Berlusconi è uno attento ai soldi, altro che uno spendaccione. E infatti noi, suoi amici ma anche tifosi, alle volte abbiamo dovuto provocarlo. Per comprare Alessandro Nesta, insieme a Galliani facemmo come nel film di Hitchcock “La congiura degli innocenti”. Dopo una partita di qualificazione alla Champions complottammo per convincere Silvio. Lui era all’estero per un vertice politico. Gli raccontammo che il Milan aveva preso gol su rimessa laterale, che la difesa andava rinforzata se volevamo vincere ancora. Così aprì il portafogli e prese Nesta dalla Lazio".


Se il Cavaliere è stato l’epicentro di tutto, allora non si capisce come mai, lungo questi trenta anni, si è parlato del Milan di Sacchi, del Milan di Capello, del Milan di Ancelotti ma mai del Milan di Berlusconi, che pure ha vinto come nessun altro presidente di club nella storia del calcio mondiale. "È l’Italia. O meglio, una certa Italia: quella di chi gli ruga, di chi fatica a riconoscere il successo, che da noi è visto nella migliore delle ipotesi con sospetto. Sarà retaggio della cultura comunista e anche di quella cattolica. Lo dicevo a mia madre, che era una fervente religiosa: “Mamma, tu non sei povera e anche se preghi non ti faranno passare per la cruna dell’ago”. Negli Stati Uniti invece anche a un Donald Trump, che non mi piace affatto, riconoscono il successo. E Berlusconi un po’ se ne rammarica e allora fa teatro, come Eduardo De Filippo in Filomena Marturano".

"Ma la tribù dei tifosi, di qualunque squadra, gli tributa il dovuto e lui se ne compiace. In questo è popolano, perciò la gente lo sente vicino. Diversamente da Agnelli, che vinceva ed era popolare, ma era avvertito con distacco. Non credo che all’Avvocato sarà mai capitato ciò che toccò a Berlusconi, il giorno in cui il suo Milan vinse il primo scudetto nel 1988. Accadde in trasferta, a Como. Fuori dallo stadio un tifoso saltò sul cofano della sua auto e gli gridò: “Silvio, bella figa”. Per Berlusconi è una delle cose più belle che gli abbiano mai detto".

L’obiettivo del «grande Milan» era chiaro ma l’epopea fu anche figlia del «fattore C», come poi riconobbe il Cavaliere: la nebbia di Belgrado che copre l’imminente eliminazione dalla Champions per mano della Stella Rossa, la partita rigiocata il giorno dopo, i rigori che ribaltano l’esito della sfida. "Fu un segno del destino, perché quella sera di novembre del 1988 ebbe inizio l’età dell’oro e delle coppe. Forse fu quel ricordo a indurre Galliani al famoso gesto di Marsiglia», quando il dirigente del Milan, a pochi minuti dalla fine, ritirò la squadra che stava perdendo con l’Olympique, perché si era fulminata una luce dei riflettori. «Adriano deve averlo interpretato come un altro segno del destino e...». È l’unico errore che Confalonieri accetta di addebitargli, perché, per il resto, "per me Galliani è il più grande dirigente di calcio che ci sia in Italia e forse in Europa. È il nostro Moshe Dayan, un grande generale, che rischiò persino le botte in giro per il mondo pur di acquistare giocatori da Milan. Non è pensabile che ora venga messo sotto esame".

Più che sotto esame oggi è sotto accusa. "A parte il fatto che nel frattempo abbiamo vinto anche con Zaccheroni e Allegri, io stesso passerei per un grande allenatore se mi dessero in squadra Messi, Neymar e Suarez. Invece sappiamo che il Milan oggi deve fare i conti con i conti. Perciò cosa si può dire di Mihajlovic? E soprattutto cosa si può dire di Galliani? Forse si potrebbe dire che c’è qualcosa di king Lear». L’evocazione del dramma scespiriano e del conflitto con le figlie del re è una rappresentazione che Confalonieri apparecchia e smonta in un istante. «Silvio è deciso ad andare avanti. Con mister Bee o con un mister C, lui vuole tornare in alto con il Milan. Le sue arrabbiature, le sue ingerenze stanno a dimostrarlo".

Berlusconi è visto come l’epigono di una tradizione che nel calcio va scomparendo, "appartiene all’epoca dei presidenti-mecenate, di quelli che lo fanno per amore dei colori e della città. Sull’altro lato del Naviglio i Moratti, padre e figlio, hanno reso gloriosa la storia dell’Inter. Persone squisite, corrette, sportive». Ricordo di ciò che non c’è più. «Ora è il tempo degli sceicchi e dei magnati d’Oriente. E sia chiaro, se arrivassero al Milan ne sarei lieto, a patto che la guida resti sempre nelle mani di Berlusconi. E comunque non si vince solo con gli sceicchi. La Juventus per esempio va fortissimo. E da dirigente del gruppo Mediaset, he ha i diritti televisivi della Champions, mi auguro che i bianconeri arrivino in finale come l’anno scorso...". Che fa, gufa? "Al tifoso è concessa la licenza. Quelli della tribù capiranno. Perché il calcio ha le sue regole. Esclusa la violenza, che va condannata, isolata e repressa, ci sta la gufata e ci sta anche il turpiloquio. Perciò mi viene da ridere se penso al polverone che si è sollevato dopo lo scontro verbale tra Sarri e Mancini. Sui gradoni di San Siro io e Silvio quante ne abbiamo dette...".

Bellissima intervista.. bei tempi quando Berlusconi aveva la capacità e intelligenza per prendere gente come Donadoni, Gullit e Nesta.. è cosi che ha fatto la storia del calcio, forse per questo signore Confalonieri sarebbe ora di tornare a fare altra congiura degli innocenti..
 

addox

Zio bello
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E' un errore pensare che questi qui siano rincoglioniti e che l'età li porti a fare scelte sbagliate. Tutto quello che avviene è legato solo ed esclusivamente alla tutela degli interessi delle aziende di famiglia.
I milanisti sono ostaggi dei berluscones e ne subiranno le conseguenze fino alla fine. Non c'è scampo.
 
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